Domenica 25 aprile 2021 - 4 di Pasqua – B (Gv 10,11-18)
Gesù ha detto di se stesso: «Io sono il buon pastore… e do la mia vita per le pecore». Le pecore sono preziose per il pastore, perché rappresentano una fonte di guadagno: gli danno latte, lana, carne. Il pastore le sfrutta in molti sensi e fino in fondo. Per questo ci lascia un po’ perplessi che l’Antico Testamento parli di Dio come di un pastore e del popolo di Israele come di un gregge. E restiamo ancor più confusi nel vedere Gesù applica a se stesso l’immagine del pastore. Tuttavia nella Bibbia il rapporto pastore-pecora viene capovolto. Non si dice che la pecora è utile al pastore, ma si evidenzia l’attenzione e la cura del pastore per le pecore, che nel vangelo arriva a lasciare le novantanove per cercare quella smarrita. Se nella vita, con le sue leggi commerciali, il pastore conta più della pecora, nel messaggio biblico si dice il contrario: la pecora vale più del pastore. Se poi il pastore è Gesù, la pecora è così preziosa che per le pecore egli dà la sua vita. Per questo è il buon pastore!
Nell’ambito sia politico, sia religioso i buoni “pastori” non sono mai stati una presenza scontata. Gli stessi profeti nella Bibbia lanciano accuse pesanti contro i cattivi pastori che pascolano se stessi e non si occupano del gregge. Sono pastori che pensano solo ai propri interessi e non si curano delle pecore fragili, sofferenti, ferite e disperse. Con amarezza occorre constatare e riconoscere che ci sono «pastori» ai quali «non importa delle pecore» (v. 13). Sono genitori, educatori, politici, preti, vescovi: pastori senza passione, senza il coraggio di sporcarsi le mani, di esporsi. Nell’ambito familiare sono «pastori» che si limitano a dire: i miei figli non si possono lamentare perché non gli faccio mancare nulla. Nell’ambito politico sono «pastori» che fingendo di pascolare il gregge, pascolano se stessi. Nell’ambito religioso sono «pastori» simili alle immaginette sacre, che puntano sulla bella immagine di se stessi, sul non deludere nessuno, sul sogno della carriera. Sono «pastori» che non osano nulla e si accontentano di curare gli ambiti rituali e l’appartenenza ecclesiale rassicurante. Ma perché si smorza la passione? Gesù risponde perché «io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me». Solo se si conosce la vita concreta delle persone, se si ascoltano le loro voci, se ci si lascia implicare nei loro vissuti, se si valorizza la loro esperienza e la loro saggezza, solo allora si diventa pastori che conoscono il gregge. Chi oggi non ascolta il grido delle donne violentate e uccise, degli stranieri che hanno trovato la tomba nelle acque del mar Mediterraneo, dei separati e dei divorziati che convivono con le loro ferite, dei tanti delusi dalla chiesa, non può diventare pastore che conosce il gregge. Se la Chiesa vive fuori dalla realtà e non tocca con mano i semi di vangelo che può cercare più nella strada che nelle canoniche, non potrà risvegliarsi dal sonno. Ne è testimone il buon pastore che non può star bene finché non sta bene ogni sua pecora, ogni suo figlio.