In un tempo come il nostro in cui molti capi di questo mondo rivendicano per sé pieni poteri dichiarandosi autorizzati a intervenire con forza per eliminare i presunti “nemici” al grido di “nessuna pietà”, oggi la liturgia ci presenta la figura di Cristo re.
Domenica 17 novembre 2024 - 33 B (Mc 13,24-32)
Gesù nel vangelo non annuncia la fine del mondo, ma il senso della storia. Non raramente l’ultimo giorno della storia, in passato, è stato usato per creare paura, ma questa non è la prospettiva del vangelo: è il volto perverso di Dio.
Gesù nel vangelo non annuncia la fine del mondo, ma il senso della storia. Non raramente l’ultimo giorno della storia, in passato, è stato usato per creare paura, ma questa non è la prospettiva del vangelo: è il volto perverso di Dio. Innanzitutto ci viene detto che il mondo è fragile: il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno. È vero che molti punti di riferimento cadono, ma è altrettanto vero che c’è qualcosa che resiste: «Passeranno i cieli, passerà la terra, ma le mie parole non passeranno». Gesù ci sta dicendo: non aver paura, costruisci sulla mia parola e la tua casa non crollerà. Se guardi una pianta impari chi è Dio: Egli non è un ramo secco, un legnetto da ardere nel fuoco, ma un tralcio verde. Chi direbbe che sotto la corteccia del ramo si nasconde un piccolo germoglio? Chi direbbe che dalle asprezze della vita può nascere altra vita? Dio ci domanda uno nuovo sguardo.
Siamo avvolti da una cronaca di violenza, di odio, di distruzioni, di un male che cresce in modo esponenziale. Pare che il sole continui a oscurarsi, che la luna smetta di dare luce e che le stelle cadano sulla terra. Quando il male sembra trionfare possiamo contemplare la gloria di Dio. Perché questo è avvenuto il venerdì santo: davanti al male assoluto della croce un uomo ha gridato «davvero quest’uomo era figlio di Dio» (Mc 15,39). Quante volte nella nostra vita si è spento il sole e le stelle sono cadute: una disgrazia, una malattia, la morte di una persona cara, una delusione nell’amicizia, una sconfitta nell’amore, un tradimento. In questi momenti ci è richiesto di ricominciare e di guardare oltre l’inverno, per comprendere che ogni estate della vita inizia con un piccolo germoglio. Dio non lo vedi, ma ti è vicino: la sua strada passa ancora sul mare della tua esistenza, anche se non ne vedi le tracce.
Domenica 10 novembre 2024 - 32 B (Mc 12,38-44)
Il racconto del vangelo Gesù mette a confronto due tipi di magistero. Da un lato quello degli scribi, dei teologie giuristi esperti. Dall’altro lato quello di una vedova povera e sola.
Il racconto del vangelo Gesù mette a confronto due tipi di magistero. Da un lato quello degli scribi, dei teologie giuristi esperti. Dall’altro lato quello di una vedova povera e sola. I primi «amano passeggiare in lunghe vesti», sono gli esperti di Dio che lo avevano sulle labbra e non nel cuore. La seconda è maestra di vita. Gesù osserva “come”, non “quanto” la gente offriva e i sacerdoti erano incaricati di dire a voce alta la quantità dell’offerta. In questo modo i ricchi apparivano, i poveri erano esposti alla vergogna. Gesù svela la falsità che ci abita, l’apparire, il farsi vedere, l’ostentare come il contrario dell’amore. I ricchi danno del superfluo, «la vedova ha gettato nel tesoro più di tutti… tutto quanto aveva per vivere». Gesù guarda ai poveri non perché siano dei santi, ma perché è lo “spazio” in cui Dio si mostra e parla.
Gesù contesta la falsa religione del “io ti do e tu mi dai”. I “guardiani del tempio” rivendicavano il diritto di decidere chi dovesse rimanere fuori o dentro il recinto di Dio. Gesù non accetta che le persone paghino per incontrare Dio, che Egli si conceda in cambio di prestazioni religiose. Una certa religione, contestata anche da Lutero, aveva fatto credere che “quando un soldino cade nella cassetta, l’anima vola in cielo benedetta”. I ricchi sono strabici: con un occhio guardano a Dio e con l’altro la gente per farsi ammirare. Per Gesù i ricchi danno il superfluo e si fanno vedere, la vedova dà tutto se stessa e non fa nulla per farsi vedere. Se qualcuno oggi guarda la chiesa la trova in chi passeggia con lunghe vesti e ama i primi posti nelle liturgie civili o nella vedova del Vangelo? La casta religiosa volveva mettersi in cattedra, ma Gesù fa sedere la vedova.
Domenica 3 novembre 2024 - 31 B (Mc 12,28-34)
Alla penultima domenica dell’anno liturgico, dopo averlo seguito per un anno, vien quasi spontaneo porre a Gesù la domanda dello scriba del vangelo: “Ma, alla fine, che cosa è più importante per te?”.
Alla penultima domenica dell’anno liturgico, dopo averlo seguito per un anno, vien quasi spontaneo porre a Gesù la domanda dello scriba del vangelo: “Ma, alla fine, che cosa è più importante per te?”. Gesù, da buon ebreo, avvicina due comandamenti, due testi della Bibbia già conosciuti: Amerai il Signore e ciò che Lui più ama: l’essere umano. Gesù sembra dirgli: Se ami Dio, lo si vede da quanto ami il prossimo! La relazione con Dio non è più basata sulla semplice osservanza di una legge, ma sulla pratica di un amore che assomiglia a quello di Dio. La fede, quindi, non consiste in ciò che l’uomo fa per Dio, ma in ciò che Dio fa per l’uomo. Non si ama l’altro perché Dio lo comanda, ma perché l’altro, le sue ferite, i suoi bisogni ci toccano, ci interpellano. Noi non sappiamo mai se chi dice di amare Dio davvero lo ami, ma sappiamo che chi ama l’uomo, lo sappia o no, ama Dio.
Nasce la domanda: Ma per che cosa o per chi rispettare un comandamento? E poi, ne vale la pena? E quale prima di tutti? Si può comandare l’amore? Gesù lo comanda perché è l’unico modo sano di vivere. Gesù ci dice: amerai il tuo prossimo perché sei della stessa pasta: è impastato dei tuoi sogni, dei tuoi desideri. Lo amerai come te stesso, … ma non dimenticare che è un altro! Ci sta dicendo: la strada più breve per arrivare a Dio è passare dai fratelli. Non puoi amare altri se prima non vuoi bene a te stesso. Ama come puoi con ciò che sei, con la tua storia, i tuoi limiti, le tue ferite, le tue ombre. Ama con il fiatone, ama quando splende il sole e quando si fa notte, ama a occhi chiusi e quanto hai paura, ama sorridendo e anche con le lacrime. Scriveva d. Milani: “Caro Michele, caro Francuccio, cari ragazzi, non è vero che non ho debiti verso di voi, ho scritto più volte: Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che Lui, il Signore, non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto sul suo conto”.
1 novembre - Tutti i santi (Mt 5,1-12)
Oggi nella festa di “Tutti i santi”, Gesù chiama beati le categorie di persone che agli occhi del mondo sembrano fallite. Il termine “beato” indica uno stato di vita, la più profonda aspirazione alla gioia, allo star bene, al vivere sereni. Dire “Beati” è come dire: in piedi, avanti voi poveri, non siete soli, Dio cammina con voi. Su, a schiena dritta, non arrendetevi, voi non violenti siete il futuro della terra, non lasciatevi cadere le braccia, ma continua a produrre amore. Delle beatitudini mi impressiona quando Gesù dice: «Beati quelli che sono nel pianto». Sembra dire che sono beati quelli che sanno piangere per le persone scomparse, per le occasioni perdute, per ciò che non hanno potuto vivere per colpa propria o di altri. Il vangelo chiama “beato” non chi piange per capricci, ma chi piangendo ripulisce i suoi occhi e vede finalmente la realtà così com’è. È un nuovo modo di vivere.
Piangere non è semplicemente versare lacrime, ma saper perdonarsi senza il bisogno di farsi violenza, senza opporre resistenza alla vita. La prima lacrima da versare è per se stessi, mettendo a tacere il proprio orgoglio che ci comanda. Solo chi è capace di perdonarsi comincia a perdonare altri e perdonare significa riconciliarsi con ciò che si è stati e si è. Per Gesù è “beato” chi ha gli occhi del cuore lucidi, chi è incapace di nutrire secondi fini, perché chi è in guerra con se stesso è in guerra col mondo intero. Chi è il santo? È colui che sa sorridere al suo peggio, che ha imparato a stare dritto come un albero, con le radici ben salde a terra: sia nella calma sia nella tempesta, sia nel consenso sia nella critica. I duri colpi che l’essere umano riceve dalla vita l’allontanano da ciò che è effimero e l’avvicinano all’essenziale.
Visita al cimitero 1 novembre 2024 (Gv 6,37-40)
Il nostro pellegrinaggio nel luogo dei nostri cari defunti è un appuntamento di cui noi poveri mortali abbiamo bisogno da sempre, ovvero da quando ci siamo resi conto di essere umani. Anzi proprio grazie a questa visita nel luogo del cimitero, del “luogo dove si va a dormire”, ci permette di riconoscere il nostro limite e diventare pienamente umani. Il termine “umano” rinvia all’humus della terra, dove le spoglie mortali delle persone care sono affidate al cuore della terra. Il gesto del porre i propri cari nella terra è lo stesso gesto che il contadino da sempre compie con la semina, perché dopo il lungo inverno possa tornare a goderne vita. Ciò che non viene seminato, infatti, non porta frutto. Il seme, per quanto prezioso, deve conoscere l’esperienza della nuda e fredda terra, il silenzio dell’inverno, il morire e il marcire. Nel vangelo Gesù ci dice che la volontà del Padre è che nessuno che cammina verso di Lui sia perduto e tra questi ci siamo anche noi. Spesso la nostra vita è una storia di perdite: perdiamo i nostri sogni, i nostri progetti, vediamo infrangersi molti desideri, perdiamo molte persone amate. Certo la vita, nel suo grembo, ha dentro anche tante bellezze, tanti guadagni, tante emozioni, tanto amore, tante scoperte mai finite. Eppure la vita è sempre in agguato – in silenzioso agguato – ci attende con delle sorprese senza nessun preavviso. I nostri giorni si muovono nella precarietà, con una loro dolce fragilità, con la preoccupazione di perdere le cose e le persone belle.
Ma Gesù ripete: «Questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno». L’ultima parola non sarà una perdita, ma la risurrezione. La nostra non è una professione di fede ingenua, facile, quasi scontata. È la nostra vita che spesso ci fa camminare al buio, che non ci fa vedere una via d’uscita, che ci fa sentire impotenti. La professione di fede nella risurrezione la diciamo mentre attraversiamo tutta la drammaticità della vita. Il Signore ci insegna ad aver più paura di una vita sbagliata che della morte, a temere di più una vita vuota e inutile che non l’ultimo respiro. Siamo gente amata e nulla: né angeli, né diavoli, né vita né morte, ci potrà mai separare dall’amore di Cristo. Questa è la nostra professione di fede oggi per noi e per le persone che qui riposano. Non basta piangere sulla tomba dei nostri cari, non basta portare fiori sulla loro tomba, ma è necessario portare i nostri cari con noi, rendere la loro vita linfa per noi oggi. Non è sufficiente costruire lapidi, ma occorre far fiorire in noi il meglio che ci hanno insegnato.
Domenica 27 ottobre 2024 - 30 B (Mc 10,46-52
I racconti di miracoli non sono resoconti di cronaca, ma contengono una profonda verità: l’incontro con Gesù cambia la vita.
I racconti di miracoli non sono resoconti di cronaca, ma contengono una profonda verità: l’incontro con Gesù cambia la vita. Bartimeo che è cieco, mendicante e solo, pur non vedendo sente passare Gesù e grida: Kyrie eleison, Signore abbi pietà. Non rassegnato alla sua cecità e disobbediente a chi vuole farlo tacere, grida ancora più forte: riconosce in quei passi uno che può guarirlo. Non manca l’ironia. Quella folla che sembra avere buoni occhi, qualche giorno dopo condannerà Gesù, mentre quest’uomo che non vede lo riconosce e lo chiama: «Figlio di Davide». La folla lo zittisce e lui grida più forte. Gesù al grido si ferma e risponde con una parola: «Chiamatelo». Gli fa una domanda che sembra far sorridere: «Che cosa vuoi che io ti faccia?». Egli chiede se vuole guarire o se si è rassegnato nella sua malattia.
Emerge il paradosso: tutti credono di vederci e sono ciechi, mentre l’unico cieco ci vede benissimo. Gesù, a differenza dei discepoli che lo seguono, si ferma presso il cieco che grida, ascolta la sua ferita, la sua fame di attenzione. È l’incontro tra il dolore di Bartimeo e la compassione di Gesù. Quando avvertiamo di essere ascoltati, la vita cambia! Anche per noi si ripete l’appello: «Coraggio, alzati, ti chiama». Coraggio, non innamorarti delle tue debolezze; alzati, non riposare sulle tue ferite; ti chiama, per aiutare altri ad ascoltare la Sua voce. Quei discepoli al seguito del Maestro potremmo essere noi i veri ciechi senza compassione, che fanno tacere le voci diverse, che pensano basti avere buoni occhi per vedere. Il cieco che è sul “ciglio della strada”, invece, sente meglio di noi il passo e la voce di Gesù, convinto che la sostanza della vitaè invisibile agli occhi e riconoscibile col cuore.
Domenica 20 ottobre 2024 - 29 B (Mc 10,35-45)
I discepoli Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, con il fare proprio di un bambino, chiedono: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo».
I discepoli Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, con il fare proprio di un bambino, chiedono: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». In altre parole con una certa arroganza reclamano un diritto: “vogliamo i primi posti, la gloria, il potere!”. In altre parole dicono: “Quando sarai un re glorioso, facci stare uno alla destra e uno alla sinistra”. Gli altri del gruppo reagiscono perché tutti sognavano quei posti di potere! E Gesù risponde che gli altri dominano, ma «Tra voi non è così». Voi mettetevi a fianco delle persone, ai loro piedi, non al di sopra. Seguire questo Maestro è farsi servitori, mettendosi all’ultimo posto, perché dal fondo della fila possiamo vedere le persone, i bisogni e le ferite come Dio le vede. I discepoli non capiscono che la loro richiesta voleva dire occupare due posti sul Golgota: alla destra e alla sinistra del Maestro crocifisso.
Siamo tutti figli di Zebedeo alla ricerca di posti di prestigio e speriamo di essere stimati, ammirati, applauditi. Nel mondo vincono i più forti, i più furbi, i più ricchi: «tra voi non è così». Chi è più in gamba metta a disposizione la sua bravura per aiutare altri. La vera gloria e non quella vana per Gesù è diventare servi di ogni vita, perché più servi e più sei grande. È un appello anche per la chiesa istituzione perché scenda dai troni, abbandoni i palazzi del potere, si scrolli di dosso la polvere imperiale, perché c’è il rischio di scambiare il cristianesimo con una struttura di potere che fa i suoi interessi in nome di quel Nazareno che si fece servo della vita dei poveri e morì sulla croce ucciso dai potenti. Siamo tutti a rischio di sgomitare per un posto in evidenza, per un po’ di potere da esercitare in famiglia, in politica, in parrocchia. Gesù ci sta dicendo che se la comunità dei credenti non pone al centro il servizio, non sta realmente seguendo Gesù.
Domenica 13 ottobre 2024 - 28 B (Mc 10,17-30)
Nel vangelo si racconta di un tale, anonimo e ricco. È senza nome perché gli è stato rubato dal denaro. Il suo nome e cognome è diventato la sua carta d’identità.
Nel vangelo si racconta di un tale, anonimo e ricco. È senza nome perché gli è stato rubato dal denaro. Il suo nome e cognome è diventato la sua carta d’identità. Davanti a Gesù ponendosi in ginocchio riconosce la sua autorità, è convinto che la sua coscienza è a posto, sa di essere un rigoroso osservante dei comandamenti, ma avverte che gli manca qualcosa. Per questo interroga Gesù per sapere la verità su di sé: «Maestro buono, che tipo di vita è la mia? Come ereditare una vita che non finisce?». Da buon ebreo egli sa bene che l’eredità non è guadagnata, ma data gratuitamente da Dio. Gesù non gli dà la medaglia del credente modello, ma gli dice: «Va, vendi quello che hai, dallo ai poveri». Ma a causa di questa parola quel tale diventa oscuro in volto: la sua ricchezza modifica l’effetto di quella parola. E Gesù chiude dicendo: tutto è possibile a Dio!
Anche a noi può capitare che esteriormente sembriamo correre verso Gesù, fare genuflessioni, segni di croce, andare a messa la domenica, osservare i comandamenti, ma poi sentire che ci manca qualcosa. I nostri meriti, le nostre buone azioni non ci garantiscono nulla. Non si può essere suoi discepoli se non si tacca il cuore da ciò che si possiede. Gesù non invita a una vita nella miseria, ma a una vita attenta a chi a bisogno, una vita che sa spezzare la torta del benessere. Dove sta allora la magia della ricchezza? In che cosa consiste il virus dell’accumulo? Gesù ci segnala che è proprio il possesso il motivo che ci rende infelici, perché il tesoro cresce dentro di noi mano a mano doniamo ad altri. anche noi siamo esposti al pericolo di sentirci persone più che religiose, ma in cerca del senso della vita, praticanti e insoddisfatti, devoti e inquieti. Siamo a rischio di correre verso Gesù, ma dopo aver sentito la sua parola di tornare camminando.
Domenica 6 - 27 B (Mc 10,2-16)
Al tempo di Gesù c’erano tre tendenze principali sul divorzio. La prima diceva “Basta un qualunque motivo”. La seconda diceva “No, mai se non in caso di adulterio”, va lapidata e basta. La terza diceva: “Mai il divorzio”.
Al tempo di Gesù c’erano tre tendenze principali sul divorzio. La prima diceva “Basta un qualunque motivo”. La seconda diceva “No, mai se non in caso di adulterio”, va lapidata e basta. La terza diceva: “Mai il divorzio”. Interrogato da alcuni farisei per sapere di che scuola è, Gesù chiede loro: «Cosa vi ordinò Mosè?». “Ci permise il divorzio” – rispondono. E Gesù spiega che il permesso lo diede per il cuore pietrificato, per limitare i danni. Egli sposta l’accento dalla legge all’amore, affermando la parità tra uomo e donna, che non c’era nella Legge giudaica, perché solo l’uomo poteva divorziare e non la donna. Dicendo «l’uomo non divida…» la possibilità è estesa anche alla donna. Si pone dalla parte debole della società, di chi è considerato abito da usare e gettare. Gesù mette in scena uno dei conflitti centrali del vangelo: il cuore della persona o la legge? Egli accoglie i bambini non perché più buoni degli adulti, ma perché più facilmente sanno aprire la porta del cuore a ogni incontro.
Le leggi umane possono riconoscere la possibilità del fallimento matrimoniale, ma Gesù va oltre e invita a non fermarsi al semplice insuccesso. Noi non siamo il nostro fallimento, valiamo di più. Un bambino che impara a camminare cade, ma nessun genitore gli direbbe: “stai a terra, tu non sei fatto per camminare”. Lo rimette in piedi e lo aiuta a capire che vale più delle sue cadute. Matrimonio indissolubile non vuol dire matrimonio indistruttibile, perché può morire: l’importante è tenere sveglio l’amore. Quando si cessa di guardarsi si finisce per non vedersi più. Non sono le discussioni, la mancanza di denaro e neppure l’infedeltà a uccidere il matrimonio, ma l’abitudine, la solitudine, il non parlarsi. L’indissolubilità che Gesù propone non è tanto una legge, quanto una promessa di vita, perché solo nel tempo le persone possono conoscersi, ricercarsi, crescere insieme. Amarsi è aiutarsi, stimolarsi a diventare se stessi: è sentirsi uno restando in due.
Domenica 29 settembre 2024 - 26 B (Mc 9 38-43.45.47-48)
«Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito perché non era dei nostri».
«Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito perché non era dei nostri». Anche noi, quando qualcuno ci chiede di esser raccomandato presso una persona amica diamo il nostro nome come garanzia dicendo: “va pure a nome mio…”, “puoi fare il mio nome…”. I discepoli, tuttavia, pensano di aver un privilegio speciale per usare il nome del Maestro. Per questo dicono: gli abbiamo impedito di scacciare i diavoli perché «non era dei nostri». Quasi a dire: quello straniero sfrutta il nome di Gesù e vuole prendersi il merito. Ma Gesù ribalta la mentalità integralista dei discepoli, tipica della setta, dicendo: «Non glielo impedite!». Anzi, se uno di voi fa inciampare una di queste persone che aiuta il mondo a liberarsi dal male, è meglio perda una mano, un piede, un occhio, piuttosto di vivere con una vita sbagliata che non riconosce il bene senza l’etichetta cristiana.
Il rischio è anche il nostro, quando vedendo uno straniero, un immigrato, un non cristiano che lotta contro il male diciamo: “Non è dei nostri!”. Come per gli scribi l’osservanza del sabato viene prima della persona, così anche per noi talvolta il gruppo, la chiesa, il movimento, il partito, lo schieramento, l’istituzione, viene prima della persona. L’indemoniato, il malato, il depresso, il disperato, lo scoraggiato possono aspettare: la vita ferita può attendere. Come canta Fabrizio de André crediamo di «tenere in bocca il punto di vista di Dio». In realtà quanti sono di Cristo e forse neppure lo sanno! Lottano contro i demoni di oggi, l’ingiustizia, la volgarità, la disonestà e non sono di Cristo. È possibile camminare sulla strada di Cristo, senza essere dei Dodici. La vera distinzione non è tra chi va in chiesa e chi non ci va, ma tra chi si ferma accanto all’uomo bastonato dai briganti, tende la mano e chi, invece, tira dritto. Chiunque aiuta il mondo e le persone a stare meglio, “è dei nostri”.
Domenica 22 settembre 2024 - 25 B (Mc 9,30-37)
Il vangelo racconta uno dei momenti di crisi tra Gesù e i discepoli. Alla domanda: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?», per vergogna non gli rispondono e per paura non gli chiedono nulla.
Il vangelo racconta uno dei momenti di crisi tra Gesù e i discepoli. Alla domanda: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?», per vergogna non gli rispondono e per paura non gli chiedono nulla. Mentre Gesù parla di croce, il gruppo discute chi fosse tra loro il più grande. Il Maestro prospetta la vita del servo che si fa ultimo ed essi sognano quella di chi sarà servito per primo. Per Gesù il più grande è chi non si serve dell’altro, ma lo serve. Siccome non capiscono compie un gesto: «prese un bambino e lo mise in mezzo». Perché il bambino? Perché non basta a se stesso, ha bisogno di tutto vive solo se è amato. Il Maestro parla di donarsi agli altri e i discepoli giocano a chi sia il più grande. Egli non dice che è proibito voler essere il primo, ma ne capovolge il modo dicendo: solo chi è libero di mettersi all’ultimo posto è davvero il primo.
In tutti c’è la tendenza a portare dentro un bisogno innato di affermazione, di conferme, di un angolo del palcoscenico sul film della vita. Siamo convinti che solo entrando in competizione si vince, solo sgomitando, accumulando e rubando riusciamo a raccogliere gli applausi e ilikedel mondo. Prendendo in braccio un bambino Gesù non invita a pensare a supposte innocenze o a purezze infantili, ma insegna una nuova logica: per alzarsi bisogna abbassarsi. Noi non siamo il ruolo che occupiamo, perché pensare di valere di più perché sediamo su un certa sedia è solo una pericolosa illusione. Gesù sembra dire: perché volete diventare grandi se io e il Padre ci trovate nei piccoli? Diventate come bambini che sanno di aver bisogno, sanno camminare insieme, non sopra…, che vivono solo perché amati. Il bambino è forte non della propria forza, ma di quella con cui lo sollevano le braccia del padre.
Domenica 15 settembre 2024 - 24 B (Mc 8,27-35)
Gesù si trova con i suoi discepoli a Cesarea di Filippo: una città romana con credenze religiose pagane in ambiente ebraico. Era l’immagine di una religiosità “leggera”, ancorata al potere di turno, che prometteva benessere e miracoli legati alla sorgente dentro la grotta da cui nasceva il fiume Giordano.
Gesù si trova con i suoi discepoli a Cesarea di Filippo: una città romana con credenze religiose pagane in ambiente ebraico. Era l’immagine di una religiosità “leggera”, ancorata al potere di turno, che prometteva benessere e miracoli legati alla sorgente dentro la grotta da cui nasceva il fiume Giordano. Immergersi dentro significava poter godere della sua bellezza, qualcosa di molto simile ai volantini dei centri benessere di oggi. È proprio a Cesarea che Gesù pone ai discepoli la domanda: «La gente chi dice che io sia?». Cosa si dice di me in giro? Per loro sei Giovanni il Battista, Elia o uno dei profeti. Per la gente è, comunque, uno che precede il Messia. E Gesù incalza: «Ma voi chi dite che io sia?». Chi sono io, per voi? Alla risposta corretta di Pietro «Tu sei il Cristo», Gesù sospettando che non ha capito precisa che il Figlio doveva soffrire, morire e risorgere. E chiama Pietro «Satana».
Se oggi ripetessimo il sondaggio su Gesù qualcuno risponderebbe come Pietro, un altro direbbe che era un uomo buono, o il primo rivoluzionario, un altro ammetterebbe di non conoscerlo bene e che i preti non lo hanno mai convinto. L’amara realtà è che possiamo frequentare il Signore tutta la vita senza riconoscerlo. Gesù non cerca risposte giuste da catechismo, ma cerca persone giuste! Per qualcuno Gesù risolve ogni problema: se hai una malattia e preghi guarirai, se cerchi lavoro e lo chiedi a Lui lo trovi, se hai una situazione sentimentale ingarbugliata Gesù la risolve. E se non risponde? Se non fa nulla la fede in questo Gesù crollerà presto. Credere in Cristo significa accettare il lato oscuro della vita, quello dei fallimenti, delle preghiere non esaudite. Oggi vedendo che molte chiese si svuotano non serve chiederci:perché si svuotano?Ma domandarci:di che cosa le abbiamo riempite?
Domenica 8 settembre - 23 B (Mc 7,31-37)
Il vangelo sembra muovere i passi tra distanza e vicinanza. Gesù si dirige verso il territorio pagano della Decapoli, che dice una distanza tra credenti e non credenti, meglio ritenuti distanti e gli conducono un sordomuto, uno che è distante: è chiuso nel suo mondo perché gli altri parlano e non capisce, lui vorrei dire ma gli è impossibile. Si sente distante.
Il vangelo sembra muovere i passi tra distanza e vicinanza. Gesù si dirige verso il territorio pagano della Decapoli, che dice una distanza tra credenti e non credenti, meglio ritenuti distanti e gli conducono un sordomuto, uno che è distante: è chiuso nel suo mondo perché gli altri parlano e non capisce, lui vorrei dire ma gli è impossibile. Si sente distante. C’è di mezzo la vita di un povero disgraziato: una vita chiusa che vita è? Gesù porta il sordomuto in disparte, non sta a distanza, ma lo tocca con la saliva: un gesto intimo che dice “di do qualcosa di mio”, che sta nella mia bocca, insieme al respiro e alla parola: simboli di vita. Poi dice: «Apriti!». Le orecchie del sordomuto si aprono solo dopo che la lingua si è sciolta, per dire che il primo passo è di diventare capaci di ascolto.
Il racconto dice del sordomuto che «lo portano». Dentro tutti noi c’è un sordomuto, ma non sempre riusciamo a chiedere aiuto, ci isoliamo, preferiamo darlo l’aiuto. In molte famiglie si parla tra sordi, coltivando il silenzio e l’isolamento. Spesso ci manca il coraggio di vivere la nostra vita senza preoccuparci di ciò che gli altri aspettano di noi! Quanta gente arrabbiata si incontra in giro! Si guarisce solo quando si ha un cuore che ascolta. Quanti figli perduti anche nelle nostre famiglie e sarebbe bastato solo ascoltarli. Chi infatti non ascolta perde la parola, perché parla senza toccare il cuore dell’altro, senza entrare in contatto con il nervo della vita. Gesù non guarisce i malati perché diventi credenti o lo seguano, ma perché vuole persone libere, guarite, piene di vita. A lui interessa più la gioia dei suoi figli che la loro fede, perché imparando ad ascoltare tornino a parlare.
Domenica 1 settembre - 22 B ((Mc 7,1-8,14-15,21-23)
Gesù, di ritorno da villaggi, città e campagne, dove aveva incontrato tante situazioni di bisogno umano tenendo la mano, si trova davanti gente che discute sul fatto che i suoi discepoli prendono cibo con mani non lavate.
Gesù, di ritorno da villaggi, città e campagne, dove aveva incontrato tante situazioni di bisogno umano tenendo la mano, si trova davanti gente che discute sul fatto che i suoi discepoli prendono cibo con mani non lavate. L’obiettivo degli esperti religiosi ebrei del tempo era di mette come una siete intorno alla Legge di Dio per proteggerla, ma il risultato fu quello di soffocare il cuore della Legge, di annullarla, di renderla non valida. In altre parole si diceva: per incontrare Dio dopo essere stati al mercato, dopo aver fatto lavori impuri, dopo aver toccato certe persone ritenute impure, bisognava purificarsi secondo delle regole ben precise, presenti anche in altre religioni. Gesù reagisce fortemente contro questi formalismi vuoti, ribaltando la tradizione religiosa dell’esteriorità. Introducendo la religione dell’interiorità, afferma: ciò che rende impuro non sono le cose, ma il cuore!
Gesù anche oggi si trova di fronte a gente che discute di mani lavate o no, di stoviglie, di lavature di bicchieri, quando si trasforma la fede in qualcosa di esteriore, quando il problema centrale è pulire la mani e non il cuore. Riprendendo il profeta Isaia dice: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me». Il forte rischio è di vivere una religione fatta di pratiche esteriori, di emozionarci per i grandi numeri, di entusiasmarci per i milioni di pellegrini, di amare la liturgia per la musica e i canti, di apprezzare l’ambiente della preghiera per la forma, i fiori, l’incenso…, ma di avere «il cuore lontano» da Dio e dai poveri. Dio non è presente dove è assente il cuore! Gesù sta dalla parte di quelli che mangiano “con le mani sporche”. È più facile lavarsi le mani che lavare il cuore, le intenzioni, i desideri, gli sguardi, i giudizi, le parole maligne... È più facile puntare il dito contro chi ha sbagliato, che farlo sedere sul trono del proprio cuore!
Domenica 25 agosto - 21 B (Gv 6,60-69)
Nel vangelo di descrive il resoconto di una crisi drammatica. Dopo il lungo discorso sul pane e della sua carne come cibo, Gesù registra una constatazione amara e sconsolante.
Nel vangelo si descrive il resoconto di una crisi drammatica. Dopo il lungo discorso sul pane e della sua carne come cibo, Gesù registra una constatazione amara e sconsolante. Dopo averlo ascoltato molti dei suoi discepoli dissero: «Questa parola è dura. Chi può ascoltarla?». Essi dicono una cosa estremamente vera: la Sua parola è dura e Gesù non lo smentisce. Perché amare i nemici? Perché porgere l’altra guancia? Perché il giovane ricco deve vendere tutto e darlo ai poveri? Perché le prostitute ci precederanno nel regno dei cieli? Perché farsi mangiare da chi ha bisogno? Perché portare la croce? Perché spingere la vita fino a questa vertigine? Perché questi colpi duri? E Gesù: «Questo vi scandalizza?... Volete andarvene anche voi?». E Pietro, a nome di tutti, risponde: «Signore da chi andremo, tu solo hai parole che fanno vivere».
I discepoli hanno capito le parole di Gesù, ma non se la sentono di unire la propria vita alla sua. L’alternativa è: fidarsi o non fidarsi. Nel tirarsi indietro di molti discepoli ci sono tutti nostri tirarci indietro. Del resto prima di credere a questo Maestro non si può capire tutto. Anche nell’amicizia, nell’amore di coppia, prima c’è il credere e poi il conoscere. A Pietro che gli lava i piedi dirà: “capirai dopo”, ai discepoli dirà “ora non potete capire tante cose”. Al Padre dirà: “perdona loro perché non sanno quello fanno”… Seguire questo Maestro è duro: dice cose che non accarezzano l’orecchio, ma che fanno vivere. Alla provocazione di Gesù «volete andarvene?», è bellissima la risposta finale di Pietro: «Tu solo». Il rischio è di dire che non c’è nessun altro su cui poggiare la vita e il giorno dopo di seguire altre parole più comode. Si tratta della vita: di fare le scelte più giuste e non le più facili.
Domenica 18 agosto 2024 B (Gv 6,51-58)
Dopo le parole di Gesù: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna», i Giudei si misero a discutere tra loro. Lo sconcerto è totale.
Dopo le parole di Gesù: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna», i Giudei si misero a discutere tra loro. Lo sconcerto è totale. Per un ebreo “carne” è la vita dell’uomo in tutta la sua fragilità, mentre bere il “sangue”, che custodisce la vita, era proibito. Quando si mangia e si beve qualcosa si consuma per darci la possibilità di vivere, per darci vita. ci nutriamo dopo un sacrificio: qualcosa o qualcuno si è sacrificato per noi. Nel nostro mondo del consumismo, si consuma cancellando ogni significato di riconoscenza. Mangiare il pane dell’eucaristia non consiste nel mangiare la realtà fisica di carne e sangue, ma accogliere tutta la sua persona, assumere la sua mentalità imparare i suoi criteri di giudizio, pensare alla sua maniera. Mangiare l’altro significa abitare l’uno nell’altro, tipico dell’amore, perché chi ami ce l’hai nel cuore.
La Scrittura non dice mai di adorare il pane eucaristico, ma di mangiarlo. Chi mangia questo pane gusta un reale stile di vita. Non posso leggere le Scritture, partecipare ai sacramenti, frequentare assiduamente l’edificio della chiesa e non aver mai fatto mio il messaggio di Gesù. Fior fiore di disonesti, assassini, delinquenti sono dei lecca-balaustre. È possibile confondere la fede con il ritualismo. La chiesa, infatti, troppe volte vive di sé anziché del vangelo! Quando si parla di transustanziazione (trasformazione della sostanza) non si indica la carne e il sangue da macelleria. Ciò che deve cambiare è la “sostanza” della nostra vita! Non c’è una parola magica, potente o sacerdotale che trasformi un pezzo di pane, ma c’è una Parola che grazie allo Spirito trasforma la nostra vita. Mangiare questo pane è “vivere per” qualcuno. Amare un pezzo di pane è facile, amare il volto di una persona è sempre impegnativo.
Assunzione di Maria - 15 agosto 2024 (Lc 1,139-56)
È la festa di Maria madre di Gesù assunta in cielo, cioè partecipe della promessa pasquale del Figlio. Non solo può dire che Gesù è suo figlio, ma che lei stessa è Sua figlia.
È la festa di Maria madre di Gesù assunta in cielo, cioè partecipe della promessa pasquale del Figlio. Non solo può dire che Gesù è suo figlio, ma che lei stessa è Sua figlia. Oggi Maria va in fretta dalla cugina Elisabetta, intraprendendo un viaggio che viene dall’amore che ha dentro. L’amore, infatti ha sempre fretta, non sopporta ritardi. Nel vangelo troviamo l’unica pagina in cui sono protagoniste due donne, entrambe incinte: con stupore, a loro insaputa, custodi del mistero di Dio nel grembo. Una ragazza che dice sì all’angelo, un’anziana che rifiorisce, un bimbo di sei mesi che danza di gioia all’abbraccio delle due madri. Le donne chiamano Dio col nome di vita e di amore. Dio non si fa conoscere con gesti spettacolari, tramite guide religiose o comandanti con poteri politici, ma attraverso il miracolo umile e straordinario della vita. È il miracolo oggi di tutte quelle donne che salvano vite in terra e in mare, che tendono la mano nella salute e nella malattia, che recuperano vite crocifisse e sbagliate. In questo modo si fanno messaggere di Colui che dà la vita. Per dieci volte Maria ripete:è Lui che ha guardato, è Lui che fa grandi cose, è Lui che ha disposto, è Lui che ha disperso, è Lui che ha rovesciato, è Lui che ha innalzato, è Lui che ha ricolmato, è Lui che ha rimandato, è Lui che ha soccorso, è Lui che si è ricordato. Maria ci ricorda oggi che la cosa più importante non è ciò che io faccio per Dio, ma ciò che Dio fa per me e, spesso, a mia insaputa.
Domenica 11 agosto 2024 - 19 B (Gv 6,41-51)
Il grande profeta Elia è così stanco e scoraggiato che vuole morire dicendo: «Ora basta Signore, prendi la mia vita».
Il grande profeta Elia è così stanco e scoraggiato che vuole morire dicendo: «Ora basta Signore, prendi la mia vita». Quante volte lo scoraggiamento ci ha fatto dire: non ce la faccio più, non serve a nulla essere buoni, non vale la pena vivere il vangelo. Attraverso un angelo Dio interviene non per togliere la fatica, ma per offrire un po’ di pane e un po’ d’acqua. E Gesù nel vangelo dicendo «Io sono il pane della vita», provoca la reazione dei giudei che diventa mormorazione, contestazione, rifiuto. Non concepiscono che Dio si riveli in un uomo debole e fragile, in un figlio di falegname. In realtà Gesù assicura che osservando come lui vive, chi frequenta, chi difende, con chi mangia, da chi si lascia toccare e baciare, conosce Dio. Mangiare la sua carne è nutrirsi della sua umanità, fare proprio il suo modo di vivere, caratterizzato dalla compassione e dalla benevolenza per ogni essere umano.
Tutta la nostra vita è un processo di conversione della nostra idea di Dio. Noi lo vorremmo potente, sul trono, che punisce chi fa il male. Al contrario si fa corpo: suda, impara, si stanca, dorme, si piega sull’umanità ferita, si commuove alle lacrime, ama l’amicizia. Non risolve i problemi, ma li porta insieme a noi. Mangiare la sua carne significa assimilare la sua mentalità, pensare come lui, imparare i suoi criteri di valore e di giudizio. In quel corpo che così ha vissuto e così si è donato noi comprendiamo chi è Dio. È la Parola ascoltata e masticata che ci regala il suo ritratto. La fede significa aderire con la vita alla sua persona. È come se Gesù dicesse:chi si gioca la vita sul mio esempio, ha la vita eterna. Ancora oggi Dio ci manda un familiare, un amico, uno sconosciuto che ci tocca, ci parla, ci tende la mano. Sono i suoi angeli, che ci portano Lui, il «Pane della vita», quello che ci sostiene.
Domenica 4 agosto 2024 - 18 B (Gv 6,24-35)
Domenica scorsa la folla lo ha acclamato e cercato per farlo re. Quello che sembra un trionfo è invece, per Gesù, il più deludente dei risultati. Lui ha proposto la condivisione e la gente lo comprende come un distributore di pane gratis.
Domenica scorsa la folla lo ha acclamato e cercato per farlo re. Quello che sembra un trionfo è invece, per Gesù, il più deludente dei risultati. Lui ha proposto la condivisione e la gente lo comprende come un distributore di pane gratis. La gente vuole saziare lo stomaco, Lui, invece, vuole saziare la vita nel profondo. Come potranno capirsi? Gesù si è reso conto che non lo cercano perché hanno fame della sua Parola, ma perché sperano di avere pane in abbondanza, gratuitamente e senza lavorare. Alla richiesta della gente «Dacci sempre questo pane», Gesù risponde: «Io sono il pane della vita». Io sono ciò che ti fa crescere, che alimenta i suoi giorni affamati di senso. Lui è il nutrimento che mantiene vivo il fragile miracolo che è la vita. Pane non è soltanto un pungo di farina, lievito e acqua, ma indica tutto ciò che ci mantiene in vita: l’amore, l’armonia, la pace, il rispetto, la libertà, la gioia…
L’uomo nasce affamato di amare e di essere amato. Ha fame di relazioni e paura di perderle, desidera amore e teme tradimenti. Egli avverte che la sua felicità non è mai garantita, ma sempre minacciata. Gesù non è venuto per trasformare con la bacchetta magica le pietre in pane, ma per insegnare che l’amore e la condivisione producono pane in abbondanza. L’evangelista vuole che ogni cristiano riconosca la propria incomprensione. Amo la persona accanto o il suo portafoglio? Amo Dio o i favori di Dio? Forse anche noi oggi, dopo duemila anni, cerchiamo il Gesù mago e non il Gesù figlio di Dio, il Gesù che riempie lo stomaco e non quello che ci regala il senso della vita. Non mancano nella chiesa pratiche vicine alla magia: la corsa ai santuari per ottenere guarigioni e assicurarsi il favore del Signore, prova che l’equivoco del pane, che Gesù offre, è sempre attuale. Il rischio, anche oggi, è di correre a conoscere il bollettino meteorologico del fine settimana, più che il senso della propria vita.