Visita al cimitero 1 novembre 2024 (Gv 6,37-40)
Il nostro pellegrinaggio nel luogo dei nostri cari defunti è un appuntamento di cui noi poveri mortali abbiamo bisogno da sempre, ovvero da quando ci siamo resi conto di essere umani. Anzi proprio grazie a questa visita nel luogo del cimitero, del “luogo dove si va a dormire”, ci permette di riconoscere il nostro limite e diventare pienamente umani. Il termine “umano” rinvia all’humus della terra, dove le spoglie mortali delle persone care sono affidate al cuore della terra. Il gesto del porre i propri cari nella terra è lo stesso gesto che il contadino da sempre compie con la semina, perché dopo il lungo inverno possa tornare a goderne vita. Ciò che non viene seminato, infatti, non porta frutto. Il seme, per quanto prezioso, deve conoscere l’esperienza della nuda e fredda terra, il silenzio dell’inverno, il morire e il marcire. Nel vangelo Gesù ci dice che la volontà del Padre è che nessuno che cammina verso di Lui sia perduto e tra questi ci siamo anche noi. Spesso la nostra vita è una storia di perdite: perdiamo i nostri sogni, i nostri progetti, vediamo infrangersi molti desideri, perdiamo molte persone amate. Certo la vita, nel suo grembo, ha dentro anche tante bellezze, tanti guadagni, tante emozioni, tanto amore, tante scoperte mai finite. Eppure la vita è sempre in agguato – in silenzioso agguato – ci attende con delle sorprese senza nessun preavviso. I nostri giorni si muovono nella precarietà, con una loro dolce fragilità, con la preoccupazione di perdere le cose e le persone belle.
Ma Gesù ripete: «Questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno». L’ultima parola non sarà una perdita, ma la risurrezione. La nostra non è una professione di fede ingenua, facile, quasi scontata. È la nostra vita che spesso ci fa camminare al buio, che non ci fa vedere una via d’uscita, che ci fa sentire impotenti. La professione di fede nella risurrezione la diciamo mentre attraversiamo tutta la drammaticità della vita. Il Signore ci insegna ad aver più paura di una vita sbagliata che della morte, a temere di più una vita vuota e inutile che non l’ultimo respiro. Siamo gente amata e nulla: né angeli, né diavoli, né vita né morte, ci potrà mai separare dall’amore di Cristo. Questa è la nostra professione di fede oggi per noi e per le persone che qui riposano. Non basta piangere sulla tomba dei nostri cari, non basta portare fiori sulla loro tomba, ma è necessario portare i nostri cari con noi, rendere la loro vita linfa per noi oggi. Non è sufficiente costruire lapidi, ma occorre far fiorire in noi il meglio che ci hanno insegnato.