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Domenica 13 luglio 2025 -15 C (Lc 10,25-37)

Dal “seguire” Gesù nasce la missione. Lo stare con Lui ha come conseguenza l’ “andare verso gli altri”. Egli invia il discepolo perché si trasformi in apostolo.

Un esperto della Legge pone una domanda a Gesù: che cosa devo fare per ereditare la vita eterna? Alla contro domanda di Gesù: che cosa c’è scritto nella Legge? Il dottore risponde come uno che sa, ma per Gesù non basta sapere. Così inizia il racconto: un uomo scendeva per la strada da Gerusalemme a Gerico e attaccato dai briganti lo percossero, lo derubarono lasciandolo mezzo morto. Si dice che era un uomo, ma non il suo nome. Passano due uomini i chiesa, vengono dal tempio, ma rimangono insensibili, non provano compassione Il primo è un prete che passando oltre manca il suo appuntamento con Dio. Il secondo è un levita, una guardia del tempio, che gli volta la faccia. «Invece un samaritano». Stupendo questo “invece” che ribalta il racconto. I Giudei consideravano bastardi ed eretici i samaritani perché da secoli si era mischiati con altri popoli da non potere essere più considerati stirpe di Abramo, ma per tutti erano nemici.

Ma ecco il paradosso, quel nemico si commuove, di fronte al bisogno non ragione a segue il cuore, dimentica i suoi affari, gli impegni, le norme religiose, la stanchezza e si prende cura del ferito. La novità paradossale che indica Gesù non è quella di prendersi cura del fratello, ma del nemico! Cosa se ne fa Dio di una religione che fornisce alibi per sfuggire alle ferite dell’uomo? Lo scandalo è proprio questo: Gli uomini di Dio, gli officianti, passano oltre, mentre la mano di Dio diventa colui che è considerato nemico. Non si tratta di essere buoni e tanto meno osservanti, ma compassionevoli, permettere che il cuore si muova con le ferite dell’altro. Il prossimo è chi ha avuto compassione di te, chi ti ha teso la mano, chi ti ha alzato, chi ha pagato per te. E allora ama i suoi samaritani e diventa anche tu samaritano. La differenza vera non è tra cristiani e musulmani, ma tra chi si ferma accanto all’uomo bastonato a sangue e chi invece tira dritto.

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Domenica 29 luglio 2025 -14 C (Lc 10,1-12.17-20)

Dal “seguire” Gesù nasce la missione. Lo stare con Lui ha come conseguenza l’ “andare verso gli altri”. Egli invia il discepolo perché si trasformi in apostolo.

Dal “seguire” Gesù nasce la missione. Lo stare con Lui ha come conseguenza l’ “andare verso gli altri”. Egli invia il discepolo perché si trasformi in apostolo. Leggendo che ”la messe è molta, ma gli operai sono pochi”, spesso abbiamo intonato il lamento sulla scarsità di vocazioni sacerdotali o religiose, quando Gesù intona la sua lode dicendo: il mondo è buono. Gesù manda i suoi a portare la pace e ad andare senza né borsa né sandali; li manda non da soli, ma due a due perché la pace comporta almeno un altro, comporta due in pace; li invia come agnelli n mezzo ai lupi, che non significa al macello: forse i lupi saranno più numerosi degli agnelli, ma non più forti; raccomanda di non salutare nessuno per strada, non per girare loro le spalle ma per rimanere concentrati sulla missione di portare amore.

Gesù ci manda disarmati come agnelli, perché non insorgano nel nostro cuore i sentimenti dei lupi: la rabbia, l’avidità, il risentimento, la voglia di prevalere... Decisivi per dire il vangelo non è la macchina organizzativa, l’imitare i modelli mondani, ma il cuore.Una donna incinta non ha nulla da dimostrare, perché ha dentro di sé un bambino e questo è sufficiente.Non dobbiamo dimostrare nulla, ma semplicemente mostrare la qualità del nostro vissuto e della nostra umanità. Noi a lamentarci: ci vogliono preti, come è distante la gente da Dio... e Gesù: il regno di Dio è vicino! Gesù semina occhi nuovi per leggere il mondo e scoprire quanto amore lo attraversa e lo fa vivere. Ha seminato buon seme in ogni cuore, che rende ciascuno capace di abbattere muri, di dare il perdono atteso e donato, di offrire una carezza a tanti dolori solitari. Quei settantadue siamo noi.

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Domenica 29 giugno 2025 SS. dietro e Paolo C (Mt 16,13-19)

L’ascensione di Gesù al cielo riassume tutto il senso della sua missione e illumina i cristiani sul mistero inesprimibile della Pasqua.

Per far crescere i suoi amici, i discepoli, Gesù adotta il metodo delle domande: che cosa dice la gente di me? E voi che cosa dite? Non sono interrogazioni del catechismo, ma mettono in moto nuove trasformazioni e aprono una nuova comprensione del Maestro. Con una domanda diretta: «Ma voi chi dite  che io sia?», Egli ha bisogno di tastare il polso della loro relazione, capire che cosa avevano compreso veramente di Lui. Gesù non si accontenta dei sondaggi d’opinione, come succede nei sondaggi quotidiani sui giornali: è diffidente, ha paura delle parole inutili, teme di essere frainteso. Non vuole indottrinare nessuno, non si accontenta di risposte raccolte per sentito dire, ma apre domande per stimolare risposte personali, perché solo se si ama la domanda la risposta comincia a sorgere dentro di noi.

La domanda è: “chi sono io per te? Che importanza ho nella tua vita?”. Non conta ciò che dico di Lui, ma ciò che vivo di Lui. Non basta definirlo con parole, ma occorre descriverlo con un modo di vivere. Non cerca parole, ma relazioni. Chi si ritiene religioso talvolta è convinto di conoscere Dio quando lo pensa, un po’ come chi crede di dissetarsi limitandosi a pensare l’acqua. Anche noi come Pietro possiamo dire «Tu sei il Cristo», ma la vera pietra sei Tu e tutti noi siamo pietre friabili, perché di roccioso c’è solo il tuo amore, la tua fedeltà che abbraccia anche i nostri fallimenti. Anche tu sei pietra viva – ci dice Gesù – con te edifico la mia casa, anche tu sei chiave che apre le porte chiuse. Non basta conoscerlo, ma è necessariori-conoscerlonella carne ferita, nel cuore tormentato, nel nemico mendicante di perdono, nel saper guardare una persona dall’alto in basso soltanto per aiutarla a sollevarsi.

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Domenica 22 giugno 2025 Corpo e sangue di Cristo C (Lc 9,11b-17)

L’ascensione di Gesù al cielo riassume tutto il senso della sua missione e illumina i cristiani sul mistero inesprimibile della Pasqua.

È la festa del corpo e sangue di Cristo. Purtroppo nelle nostre eucaristie abbiamo accentuato così tanto il fatto della presenza reale da impoverirle, dimenticando altre presenze come la Parola di Dio e quando la Chiesa prega su due o tre riuniti nel suo nome invocando lo Spirito. Noi celebriamo l’eucaristia perché Cristo ci trasformi in un solo corpo, per essere memoria vivente di Lui, imparando i suoi atteggiamenti, i suoi sentimenti, i suoi desideri. Vivere una vita eucaristica non significa andare alla Messa tutti i giorni, ma vivere facendo della propria vita un dono d’amore. Davanti ai cinquemila uomini, in Palestina, Gesù benedice il pane, lo spezza e lo consegna ai discepoli. Non si moltiplica nelle sue mani, ma nelle loro. L’abbondanza accade nella distribuzione.

Come qui cinquemila anche noi abbiamo bisogno di qualcuno che si prenda cura, si accorga di me, guarisca la mia vita. Prima di farsi ostia consacrata, Dio s’è fatto carne, ogni carne. In questo modo si comprende che i veri e più preziosi tabernacoli sono i corpi martoriati dei poveri, le carni sciupate di profughi, degli allontanati, degli abbandonati. Adorare l’ostia consacrata e poi calpestarla nel fratello e nella sorella, è ancora essere suoi discepoli, basta per essere cristiani? Quella sera in Palestina tutti furono sfamati: buoni e meno buoni, meritevoli e no. Tutti! Dio non si merita, si accoglie, si ringrazia. Gesù, davanti al bisogno, dice: «Date». Quando ho fame, Signore, manda sulla mia strada qualcuno da sfamare, quando ho bisogno manda qualcuno che ha ancora più bisogno di me.

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Domenica 15 giugno 2025 Trinità – C (Gv 16,12-15)

L’ascensione di Gesù al cielo riassume tutto il senso della sua missione e illumina i cristiani sul mistero inesprimibile della Pasqua.

Trinità: un solo Dio in tre persone. Ma che Dio è quello cristiano? Quando nel discorso di addio Gesù afferma «Ho ancora molte cose da dirvi», ci sta dicendo che neppure Lui ha potuto dire tutto. Noi che talvolta ci comportiamo come quelli che sono in grado di dire tutto di Dio, di definirlo, di spiegarlo. Per questo ci manda la Spirito, non una serie di formule, ma la sapienza per vivere, l’energia per camminare in salita. La Trinità è un dogma cristiano che non capiamo, eppure ci sta dicendo che Dio non è in se stesso solitudine, ma è scambio, incontro, abbraccio. Egli gode di mettere in comune, la sua è una casa dalle porte aperte a tutti: agli amici e ai nemici, ai familiari e ai parenti scomodi, ai connazionali e agli stranieri.

Neanche il Dio cristiano può stare solo. Egli ci dà lezione di vita convinto che «non è bene che l’uomo sia solo». Vivere è stabilire legami, regalare saluti, ascoltare la musica del vissuto del fratello e della sorella, tendere la mano alla ferita degli altri. Lo Spirito è dentro di noi: è più intimo di noi stessi! Se facciamo qualcosa che non va, questo Spirito che abbiamo dentro ci rattrista, mentre quando amiamo qualcuno questo Spirito interiore ci rende felici. Come i Padri della Chiesa raccontavano la Trinità? Dicevano che era come il sole: il Padre è l’Amante, il Figlio è l’amato, lo Spirito è l’Amore. Quando noi vogliamo il bene degli altri regaliamo calore, luce, energia di vita e n questo modo ci viene restituita la nostra umanità più ricca e più piena.

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Domenica 8 giugno Pentecoste – C (Gv 14,15-16.23-26)

L’ascensione di Gesù al cielo riassume tutto il senso della sua missione e illumina i cristiani sul mistero inesprimibile della Pasqua.

Per descrivere l’azione dello Spirito il vangelo adopera tre verbi. Egli rimane, insegna e ricorda. Innanzitutto è colui che “rimane” accanto, non abbandona, uno vicino a noi e non contro di noi: ci avvolge come il vento, come una brezza leggera o talvolta come un uragano che scuote la casa. È voce di silenzio sottile, ma anche fuoco che brucia. Inoltre è lo Spirito che “in-segna”, che incide un segno dentro la persona, nell’intimità di ciascuno, lascia un segno al suo passaggio, una traccia al suo soffio. Infine “ricorda”, nel senso che riaccende la memoria di quando passava e guariva la vita, dicendo parole di cui non si capiva fino in fondo. È uno Spirito che sfugge a ogni controllo, non si lascia sequestrare dai poteri di turno: fa parlare ciascuno la propria lingua e guarisce molte persone mute.

La condizione che Gesù pone è: «Se mi amate…». Lo dice ai suoi che lo avevano tradito e che non erano sati capaci di vegliare con lui nel Getsemani e lo dice a noi che in modo diverso gli assomigliamo quando vivendo prendiamo sonno. L’amore non è un luogo, ma è un modo di vivere. È l’unica vocazione a cui l’essere umano è chiamato a rispondere. Chi non ama, infatti, è fuori della sua vocazione: sia che faccia il prete, sia che si consacri come suora, sia che si sposi come marito o come moglie. Lo Spirito è come il vento che porta nuovo polline sul fiore della nostra vita. È la polvere microscopica essenziale per la ripartenza del piede stanco, il soffio che rafforza il nostro sistema immunitario, il respiro che riduce lo stress e combatte le allergie. È lo spirito della libertà che non dice all’altro: “Sii te stesso a modo mio”, ma “diventa ciò che sei”.

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Domenica 1 giugno Ascensione C (Lc 24,46-53)

L’ascensione di Gesù al cielo riassume tutto il senso della sua missione e illumina i cristiani sul mistero inesprimibile della Pasqua.

L’ascensione di Gesù al cielo riassume tutto il senso della sua missione e illumina i cristiani sul mistero inesprimibile della Pasqua. Questo suo salire ci pone alla ricerca di un crocevia tra terra e cielo, di uno spiraglio che possa dura al di là del tramonto del giorno. Prima di salire compie tre gesti: invia, benedice, scompare. Manda i suoi e la chiesa in uscita perché non pongano al centro se stessi, ma il servizio all’essere umano e a tutte le vite. Alzate le mani capisce le loro fragilità e li benedice: dice bene di coloro che gli hanno voluto bene e di quelli che hanno remato contro. La chiesa nasce da quel corpo assente e da una presenza silenziosa ed efficace che sempre l’accompagna nel profondo della vita. Se prima era con i discepoli, ora sarà dentro di loro, per rimanervi e farci sperimentare che la vita è più forte di ogni ferita.

Non possiamo escludere la reazione dei discepoli che pensano: dove te ne vai Maestro? Perché ci lasci di nuovo soli? Ciascuno di noi conosce la nostalgia dolorosa di poter rivedere anche solo per un momento, per un breve attimo la persona cara che ha perduto. È il desiderio di offrire al suo volt un’ultima carezza, magari un tenero bacio e così scambiarsi uno sguardo non senza lacrime e amore. Dopo la sua morte gli apostoli hanno potuto vedere e toccare il crocifisso risorto, ma poi è sembrato un sogno. In realtà oggi il Maestro li saluta non lasciando loro una dottrina, un metodo per pregare, non con il compito di bruciare incensi e nemmeno di inginocchiarsi ad alcuna autorità, religiosa o civile che sia. Il mandato è di imparare dal suo stile di essere “per gli altri”, per quel prossimo ferito che di volta in volta rimane raggiungibile. È in quella carne che Lui si fa trovare!

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Domenica 25 maggio 2025 - 6 di Pasqua (Gv 14,23-29)

L’evangelista Giovanni concentra il messaggio di Gesù in tre parole: “dimora”, “Spirito”, “pace”. «Se uno mi ama, osserverà la mia parola».

L’evangelista Giovanni concentra il messaggio di Gesù in tre parole: “dimora”, “Spirito”, “pace”. «Se uno mi ama, osserverà la mia parola». Amarlo significa, come Lui, aprire la porta, dare, tendere la mano. Ricevere lo “Spirito”, inoltre, vuol dire nelle tempeste lasciarsi incoraggiare, nelle vite spente accendere il cuore, tener vivo tra le ceneri il fuoco della speranza. Il dono della “pace”, infine, non si compra e non si vende, ma piove sui cuori di ogni giorno, bagna i terreni umani in guerra, già oggi ci salva da una vita e da azioni senza cuore. Se mi ami – dice Gesù – vivrai la mia Parola, che orienta i tuoi passi, ti condure al tempio del cuore, ti guida sulla strada del voler bene. Uno si chiede: dov’è Dio? Lo cerchi e non lo trovi. Quando vediamo persone che si vogliono bene Dio è presente e ce lo raccontano.

Che cosa significa osservare la sua Parola? Nel Vangelo il rimo posto non spetta alla morale, ma alla storia di amore che viviamo con Dio. Questa parola maiuscola, che è la persona di Gesù, crea ponti, genera abbracci, accende strette di mano, spalanca stagioni nuove, semina buon seme nel campo sterile della vita. Noi pensiamo: se osservo le sue leggi, amo Dio. Ma non è così, perché puoi essere un cristiano osservante anche per paura, per cercare dei vantaggi o per dei sensi di colpa. Ci hanno insegnato: se ti penti, ti perdona. In realtà la misericordia di Dio anticipa il tuo pentimento: è già nel tuo cuore e nelle tua mani. Osservare la sua Parola è vivere nella pace che continuamente va osata e che mai assicurata. Il mondo, invece, cerca la pace come un equilibrio di paure o come la vittoria del più forte, quando in realtà va costruita con il cuore del paziente artigiano.

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Domenica 20 aprile 2025 - Pasqua (Gv 20,1-9)

Nei primi due giorni del triduo pasquale abbiamo seguito Gesù nella passione, nella morte e nella sepoltura.

Nei primi due giorni del triduo pasquale abbiamo seguito Gesù nella passione, nella morte e nella sepoltura. Il terzo giorno lo seguiamo risorto, perché colui che era realmente morto è stato risuscitato: non semplicemente vivente, ma «il Vivente». Maria di Magdala, quando ancora era buio, va al sepolcro per imbalsamare il corpo di Gesù. Gesù era morto, ma quello che si usava fare per un caro estinto andava fatto. Ma ecco la sorpresa: la tomba è vuota! Maria informa Simon Pietro e l’altro discepoli che hanno rubato il corpo e i due corrono. Il discepolo Giovanni, che Gesù amava, arriva per primo e giunge a credere, perché i segni sono eloquenti sono per il cuore che li sa leggere. Quanta fretta mossa dal legame con il Nazareno: chi ama ha sempre fretta, capisce prima, più a fondo. Le donne vogliono imbalsamarlo, i discepoli sono stupiti.

La sorpresa della tomba vuota sembra rendere ridicola Maria che va per imbalsamare l’amico Gesù. Ma questo è anche il nostro rischio quando siamo tentati di ridurre il risorto a un ricordo, a una semplice nostalgia a una speranza umanamente impossibile. Oggi il vangelo dice a Maria Maddalena e a noi: non imbalsamare Gesù, perché è vivo ed è risorto: è in mezzo a noi! Imbalsamarlo vuol dire chiuderlo in una chiesa, appenderlo muto al muro di casa, portarlo dorato con una catenina al collo. In realtà tu non hai bisogno di una sua immagine, ma di Lui, della Sua persona. Dove speri di trovarlo vivo? Non imbalsamato nella dottrina, non ingessato nella statua, non impagliato nel museo, per conservarlo nella forma che aveva da vivo, ma presente nei sofferenti, nei poveri, negli emarginati. Il risorto ci insegna che chi ama non muore mai!

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Domenica 13 aprile 2025 - Palme C (Lc 22,14-23,56)

La festa che noi chiamiamo delle Palme è il corteo che accompagna Gesù giù dal Monte degli Ulivi: c’è chi canta, chi applaude, chi stende mantelli al suo passaggio, chi agita rami di palma. Qualsiasi uomo qualsiasi re, potendolo scenderebbe dalla croce: Lui no.

La festa che noi chiamiamo delle Palme è il corteo che accompagna Gesù giù dal Monte degli Ulivi: c’è chi canta, chi applaude, chi stende mantelli al suo passaggio, chi agita rami di palma. Qualsiasi uomo qualsiasi re, potendolo scenderebbe dalla croce: Lui no. È un Dio differente da tanti altri perché entra nella tragedia umana, sale sulla croce per essere insieme a me appeso alle mie croci. Non è una novità perché si è fatto conoscere fin dalla nascita in questo modo. È arrivato sulla terra non rivestito di corazze e di frecce velenose, ma fasciato dalla tenera pelle di un bambino, con l’odore del latte materno e il balsamo delle carezze amorose. Si è mostrato un Dio fragile, capace di commuoversi, di soffrire, di abbracciare chi era orfano di misericordia. Non ha fatto la parte del leone ruggente, ma dell’«agnello condotto al macello, della pecora muta di fronte ai suoi tosatori» (Is 53,7).

Quando Gesù ha avuto sonno, sete, fame e stanchezza, quando sconsolato ha sentito il bisogno di appoggiarsi agli amici, quando non è riuscito a trattenere le lacrime dinanzi all’amico morto o sulla città che lo avrebbe messo in croce, ha mostrato tutta la sua umanità non diversa dalla nostra. Non è facile accettare un Dio così scandaloso: troppo debole, troppo uguale a noi, così fragile da morire sulla croce. Quando la salita della vita pesa più del solito pensiamo all’asino del corteo delle Palme. Il clima è di festa, alcuni camminano al fianco di Gesù, altri osservano curiosi a distanza. Ma chi fa lo sforzo maggiore è l’asino che porta lo sconosciuto: fatica più di tutti, eppure non si ferma, continua. Sente il peso di quella strada, ma è anche il più vicino a Gesù. L’importante è non arrendersi mentre portiamo il peso del Vangelo.

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Domenica 6 aprile 2025 - 5 quaresima C (Gv 8,1-11)

l vangelo ci porta nel tempio e ci descrive due schieramenti: da un lato gli scribi e i farisei, dall’altra la donna colta in adulterio e Gesù.

Il vangelo ci porta nel tempio e ci descrive due schieramenti: da un lato gli scribi e i farisei, dall’altra la donna colta in adulterio e Gesù. Da una parte gli osservanti puri e duri, dall’altra Gesù: la misericordia in persona. Gli accusatori, con intenzioni maliziose, coinvolgono Gesù in un giudizio sulla donna, sulla legge e finiscono per essere coinvolti in un giudizio su se stessi. L’accusato è Gesù: se propone la clemenza va contro la legge di Mosè, se approva la lapidazione contraddice la misericordia. Due sono i modi vedere quella donna: per scribi e farisei è un caso da risolvere con le regole, per Gesù è una persona viva da rispettare, che soffre e non da umiliare. L’obbedienza, infatti, rispetta le regole, ma l’amore sa quando infrangerle. L’amore è più grande dell’obbedienza! Gesù, che è la Parola, mette a tacere ogni sentenza di morte verso la peccatrice.

Osserviamo la postura di Gesù. Alla domanda:tu che ne dici? Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Si china, scrive per terra, poi si alza dicendo «Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra». Poi di nuovo si china e scrive per terra. Il chinarsi e apre e chiude la sua arringa di avvocato improvvisato. Fra chi osserva e i giustizieri l’unica persona a terra è l’adultera. Gesù inchinandosi si mette al suo livello, condivide la postura della condannata, quasi a dire: sono vicino a te. Stare in piedi significa stare dalla parte dei giudici, di chi si sente sopra. Stare chinato significa essere dalla parte della peccatrice. Se era stata colta in flagrante adulterio dov’era l’uomo? È sconcertante notare come i primi pronti a coprire di pietre chi sbaglia, siano gli osservanti. Può accadere anche oggi che molti avvertano la chiesa dalla parte degli osservanti: con uno sguardo e un giudizio di pietra.

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Domenica 30 marzo 2025 - 4 Quaresima C - (Lc 15,1-3.11-32)

Ci sono storie che si ripetono un po’ in ogni famiglia. Storie di porte sbattute, di silenzi pesanti, di grida di insofferenza, di malumori tra fratelli e sorelle.

Ci sono storie che si ripetono un po’ in ogni famiglia. Storie di porte sbattute, di silenzi pesanti, di grida di insofferenza, di malumori tra fratelli e sorelle. Oggi Gesù ce ne racconta una per dirci di un padre di due figli che vede il più giovane andarsene, non a mani vuote, ma pretendendo l’eredità, come se il padre fosse già morto per lui. non ne ha una grande opinione, gli appare debole avaro, vecchio, fuori tempo. Ma in fondo i ribelli domandano di essere amati. Il fratello maggiore, intanto, continua la sua vita tutta casa e lavoro, ma il suo cuore è assente e anche lui avverte il padre come padrone al quale si deve ubbidire, ma non amare. La parabola si propone i farci cambiare l’opinione su Dio. La fame muove il primo figlio, non l’amore: «Mi alzerò… andrò… gli dirò». Il figlio maggiore, troppo fedele, sempre perfetto e giusto ha un cuore di servo e non di figlio.

La parabola è detta per i giusti e non per i peccatori. Sono loro che hanno falsato il rapporto con Dio, perché pensano di avanzare meriti davanti a lui. Il padre vedendo il giovane figlio da lontano gli corse incontro. Non domanda: perché l’hai fatto? Non dice: te l’avevo detto! Ma: hai fame? Quel padre non è esperto in rimorsi, ma in abbracci. In chi si considera giusto nasce la domanda: dare in questo modo il perdono ai peccatori, non significa rendere inutile ogni sforzo di fedeltà? Perché allora impegnarsi? È giusto far pagare quando si sbaglia! Purtroppo questa mentalità religiosa non concede spazio alla misericordia di Dio, gli proibisce di esprimersi. Il suo è un amore che non finisce di sorprendere anche il fratello maggiore. Eppure questo amore non va giudicato nemmeno quando non lo si capisce!

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Domenica 23 marzo 2025 - 3 quaresima – C (Lc 13,1-9)

Che colpa avevano i diciotto morti sotto il crollo della torre di Siloe?

Che colpa avevano i diciotto morti sotto il crollo della torre di Siloe? Perché il Signore non ha incenerito Pilato responsabile di crimini spietati? E le vittime di terremoti, di incidenti, di malattie, sono forse più peccatori di altri? È la domanda che non raramente attraversa anche i nostri pensieri. Gesù esclude che ci sia un rapporto tra la morte di queste persone e le loro colpe. Perché non prende posizione di fronte al massacro? Gesù non sfugge il problema, ma propone una soluzione diversa dall’ira, dall’odio, dalla violenza chiedendo di cambiare mentalità: invita a intervenire alle radici del male. Solo persone diverse, dal cuore nuove possono costruire un mondo nuovo. Al fico che non produce Gesù concede un altro anno di attesa per coltivarlo perché forse produrrà frutti non sperati. “Convertirsi” significa cambiare il nostro sguardo su Dio e su noi stessi.

Torna la domanda: “Che cosa ho fatto di male per meritarmi questo?” È l’idea di un Dio che premia i buoni e castiga i cattivi. È una dottrina malata che ci portiamo dentro. Gesù distrugge l’equazione peccato = castigo. A suo avviso l’umanità non è divisa tra buoni e cattivi, ma tutti siamo in modo diverso “ladroni sulla croce”, eppure tremendamente amati in quanto figli e non per le nostre buone azioni. La fiducia dei genitori è come una vela gonfia di vento per i figli, che li spinge in avanti e che fiorirà pur tra le crisi. Ai genitori è richiesto di essere credibili senza pretendere di essere creduti. La quaresima ha un senso se ci disintossichiamo dalla nostra immagine di un Dio terrorista e ci affidiamo a un Dio contadino paziente e fedele, che si prende cura del mio ‘campo’ e scommette ancora su di me, su questo mio terreno spesso incolto e senza frutti.

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Domenica 16 marzo 2025 -2 quaresima – C (Lc 9,28b-36)

Gesù va sul monte a pregare per capire gradualmente che cosa lo aspetta.

Gesù va sul monte a pregare per capire gradualmente che cosa lo aspetta. Si è reso conto che è chiamato a salvare gli uomini non mediante il trionfo, ma attraverso la sconfitta. Egli sperimenta l’insuccesso: le folle entusiaste lo abbandonano, qualcuno lo ritiene un esaltato, i suoi nemici tramano di ucciderlo. È comprensibile che egli si interroghi sul cammino previsto dal Padre. Sul monte cambia d’aspetto, offre un anticipo della risurrezione. I tre discepoli con lui sono entusiasti e vorrebbero che quel momento non finisse mai. Il maestro mostra che il suo cammino non finisce con la morte, ma va oltre. Una voce dal cielo dice: «Ascoltate Lui», spiate nel groviglio della storia la sua parola. I discepoli non potevano parlare dell’esperienza perché non avevano capito.

Nel cambio d’aspetto di Gesù che diventa luminoso è riassunto il cammino del credente. Il nostro nascere è un “venire alla luce”, il partorire delle donne è un “dare alla luce”. Vivere è la fatica, dura e gioiosa, di liberare la luce sepolta in noi. L’ascolto della sua Parola ci permette di dire: è bello stare qui in questo mondo, in questa umanità malata e splendida, barbara e magnifica. Il trasfigurato ci insegna che nella nebbia occorre sfilare la luce. Sofferenza e benessere si nutrono reciprocamente. La fatica e il dolore contengono sempre un senso, un significato, perché dove qualcuno soffre qualcosa parla! Quante persone sfigurate dalla malattia, dalla sofferenza che hanno perso la loro figura, eppure il dolore è un modo per decifrare meglio se stessi, spoglia dell’essenziale. Per quanto buio può essere la notte, dice il trasfigurato, l’alba è vicina.

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Domenica 2 marzo 2025 - 8 C (Lc 6,39-45)

L’invito di Gesù è di guardarsi dentro. Ci porta alla scuola della sapienza degli alberi. La prima legge di un albero è portare frutto.

L’invito di Gesù è di guardarsi dentro. Ci porta alla scuola della sapienza degli alberi. La prima legge di un albero è portare frutto. Ed è la stessa regola che ispira il vangelo: portare frutti buoni con gesti che fanno davvero bene, con una parola che consola e guarisce, con un sorriso che riapre la speranza. Nel giudizio finale, non nel tribunale, ma nella rivelazione della verità ultima del nostro vivere, il dramma non saranno le nostre mani forse sporche, ma le mani desolatamente vuote, senza frutti buoni offerti per la fame di altri. Gli alberi, per loro natura, mostrano come non vivano per se stessi, ma al servizio di chi raccoglierà e mangerà i loro frutti. Dio non cerca alberi senza difetti, con nessun ramo spezzato dalle bufere della vita, ma alberi piegati dal peso dei tanti frutti, carichi di spighe e di pane, di grappoli e di lacrime asciugate.

A volte abbiamo la pretesa di essere guida dell’altro e maestro dell’altro, ma se siamo ciechi, che guida pretendiamo di essere? Se siamo falsi, che maestri vogliamo essere? Non bastano i titoli, le facciate, le poltrone, l’appartenenza a gruppi religiosi, l’abitudine di ripetere pratiche di pietà e poi scoprirsi come alberi che producono frutti acerbi e velenosi. L’invito di Gesù è a guardarsi dentro. Se uno è troppo occupato a guardare gli altri, a sentenziare sulle loro pagliuzze finisce per credersi senza difetti. Se i tuoi occhi sono chiusi, malati, diventano un pericolo per coloro che pretendi di accompagnare. La trave di cui parla il Vangelo è la falsità religiosa: ingigantiamo le colpe degli altri e minimizziamo i comportamenti di casa nostra. Controlla il cuore, dice Gesù, a volte basta il tono della voce per capire che cosa abbiamo nel cuore.

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Domenica 23 febbraio 2025 - 7 C (Lc 6,27-38)

Dopo aver chiamato beati i discepoli perché sono poveri, perché hanno fame, piangono, sono perseguitati, Gesù annuncia parole sconvolgenti: «Amate i vostri nemici,

Dopo aver chiamato beati i discepoli perché sono poveri, perché hanno fame, piangono, sono perseguitati, Gesù annuncia parole sconvolgenti: «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano». Gesù condanna ogni forma sbrigativa di violenza. Noi siamo convinti che facendo pagare il torto si ristabilisca la giustizia e tutti ricevano una lezione di vita. La forma sbrigativa non aiuta chi ha sbagliato a migliorare, ma scatena maggior aggressività e odio. Con un tono provocatorio Gesù chiede ai suoi: da che cosa si vede che siete miei discepoli? Se amate chi vi ama, perdonate chi vi perdona, che fate di così diverso da altri? Lo fa anche chi dice di non credere.

La novità impegnativa che Gesù chiede a chi lo segue è: «Amerai i tuoi nemici». E noi a rispondere: come amare chi mi umilia e calpesta? Amare non significa sopportare in silenzio, senza reagire, ma ristabilire la giustizia e l’armonia con il metodo del vangelo che non ricorre alle armi, alla violenza, alla vendetta: non paga il male con il male. Il comanda di Gesù va oltre il criterio della reciprocità: “io ti do a condizione che tu mi dia”. Siamo sempre legati alla logica: peccato, castigo, pentimento, perdono. «Ciò che desideri per e dallo all’altro». Altrimenti ci sbraneremo per un pugno di euro, per una donna, per i rumori condominiali, per un bonus, per un posto al parcheggio. Gesù non esige che diventiamo amici di chi ci fa del male, non domanda di guardare solo ai propri diritti, ma ai bisogni dell’altro.

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Domenica 16 febbraio 2025 - 6 C (Lc 6,17.20-26)

Tutti siamo mendicanti di felicità. Il mondo di oggi non cessa di ricordarci che la persona felice è quella che è in salute, ricca, famosa e stimata.

Tutti siamo mendicanti di felicità. Il mondo di oggi non cessa di ricordarci che la persona felice è quella che è in salute, ricca, famosa e stimata. Il nazareno Gesù indica un’altra strada estremamente concreta che l’evangelista Luca racconta con quattro beatitudini e quattro lamenti. Dapprima chiama beato chi è povero, chi è affamato, chi piange, chi è rifiutato. Non dice «beati voi» perché soffrite, perché vi manca qualcosa, ma perché «vostro è il regno di Dio», perché appoggiate la vostra sicurezza su di Lui. E poi aggiunge quattro «guai»: rivolti ai ricchi, ai sazi, a chi soltanto ride, a chi si accontenta di ricevere complimenti. Il termine “povero”, in greco, indica lo stare rannicchiato davanti a Dio, davanti a tutti, come in attesa. Al contrario la parola “ricco” signifca l’essere pieni di sé e perché pieni non c’è posto né per Dio, né per nessuno.

Gesù non ha mai disprezzato la ricchezza, ma ne ha denunciato i rischi, perché in essa si può attaccare il cuore. I beni sono preziosi, ma essendo un dono non ne siamo i padroni. Gesù chiama beati i poveri, ma non beatifica la povertà!egli propone un ondo in cui nessuno accumula per sé, nessuno sperpera, ma mette a disposizione ciò che ha ricevuto. Dire «beati i poveri», non è un messaggio di rassegnazione, ma di speranza. Per Gesù è beato chi vive e ama onestamente dove trionfa la falsità. È beato chi conosce le lacrime in una società dagli occhi asciutti per l’indifferenza. È beato chi crede nella fedeltà in un clima diffuso di infedeltà. È beato chi si mantiene umano in un mondo che ha fame di interessi e sete dieuri, mentre altri piangono e muoiono di fame. Il mondo non appartiene a chi lo compra, ma a chi lo rende migliore.

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A tutti è successo di aver fallito nel mare della vita, di aver sbagliato tutto, di esserci ingannati su un amore, su una relazione e di trovarci precipitati in una lunga notte di delusione.

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Domenica 2 febbraio 2025 - Presentazione del Signore (Lc 2,22-40)

Per secoli nell’Antico Testamento si è coltivata l’attesa e la certezza che un giorno Dio si sarebbe mostrato con tutta la sua forza contro chi non osservava la sua Legge.

Per secoli nell’Antico Testamento si è coltivata l’attesa e la certezza che un giorno Dio si sarebbe mostrato con tutta la sua forza contro chi non osservava la sua Legge. Ma con sorpresa entra nella storia in un modo del tutto inatteso. Ci si attendeva un suo ingresso trionfale nel santuario, fra schiere di angeli, giudice severo, pronto a condannare e invece entra come neonato debole, indifeso, avvolto in fasce, che ancora non parla. Non sono i sacerdoti ad accoglierlo, ma due laici anziani Simeone e Anna, innamorati della vita, di Dio, che non smettono di sperare. Gesù, infatti, non appartiene all’istituzione, alla gerarchia, non è dei preti, ma dell’umanità intera. Simeone prendendo in braccio il bambino dice: «I miei occhi hanno visto la salvezza di tutti». Ma quale salvezza hanno visto? Solo un bambino: Dio che si fa carne, storia amata, luce nel buio.

E Simeone aggiunge: «Egli è qui per la caduta, la risurrezione, …segno di contraddizione». Queste parole diventano preghiera. Fa “cadere” o Signore le mie sicurezze, il mio orgoglio, la mia presunzione. “Contraddici” i miei pensieri con i tuoi pensieri, demolisci le mie posizioni con la tua proposta di amore, contesta la mia visione del mondo con la tua, demolisci le mie sicurezze. Sii tu la mia “risurrezione” quanto cado a terra e non mi rialzo, sii tu la mia rinascita quando mi sembra che tutto sia finito, sii tu la mia rifioritura quando le stagioni della vita mi impediscono di fiorire. Sii tu la mia “risurrezione” quando sperimento l’inferno, la delusione, il tradimento, l’infedeltà. È così che Simeone e Anna, con gli occhi velati dalla vecchiaia e forse con qualche cataratta, se ne tornarono al magistero della famiglia senza smettere di vedere nel Bambino la Speranza fatta carne.

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Domenica 26 gennaio 2025 - 3 C (Lc 1,1-4; 4,14-21)

Per quattro volte Gesù entra nella Sinagoga e ogni volta crea problemi. La prima  volta, quella di oggi, cercano addirittura di farlo fuori. Compie due infrazioni.

Per quattro volte Gesù entra nella Sinagoga e ogni volta crea problemi. La prima  volta, quella di oggi, cercano addirittura di farlo fuori. Compie due infrazioni. La prima consiste nel non leggere il testo previsto, ma di scegliere un passo di Isaia che proclama «l’anno di grazia del Signore». La seconda libertà che si prende è di non leggere tutto il versetto, che continuava parlando del «giorno di vendetta del nostro Dio». Lui si siede da maestro e tutti sono meravigliati e scandalizzati. Richiamando poi il tempo della carestia di Israele, dice che Dio andò da una vedova di Zarepta, nell’attuale Libano, perché la Sua azione è anche per i pagani. Non solo, ma nessuno dei molti lebbrosi al tempo del profeta Eliseo fu purificato se non il pagano Naàman, il Siro. Gesù annuncia un Dio che non si vendica e non fa preferenze di persona.

L’annuncio di liberazione: «Oggi si è compiuta questa Scrittura», in Gesù diventa fatto. La parola diventa carne per i prigionieri, per i ciechi, per i poveri… per noi. Dio dopo essersi raccontato nei libri, ora si racconta nella vita del Figlio dell’uomo. Egli annuncia “oggi” l’anno di grazia e cancella la vendetta. Comincia il suo cammino dalle periferie della terra, da chi è piegato dalla vita, da chi lo tradisce. In sua compagnia gli ultimi saranno i primi, le prostitute entreranno prima dei giusti nel Suo regno, le novantanove pecore saranno abbandonate per amore di quella che si è persa. È il capovolgimento delle nostre logiche e rigide norme religiose. A noi è affidato il compito di realizzare il sogno di Dio, facendoci compagni di viaggio dei poveri, degli umiliati e degli offesi, prendendo parte alle loro storie ferite e condividendone i pesi. A Gesù non importa se il povero e il cieco sono giusti o peccatori, ma se “oggi” hanno bisogno di amore o meno.

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