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Domenica 28 luglio 2024 - 17 B (Gv 6,1-15)

Se domenica scorsa le persone che rincorrevano Gesù avevano sete di una Parola vera, oggi hanno fame di cibo. Se domenica erano pecore senza pastore, oggi sono anche pecore affamate.

Se domenica scorsa le persone che rincorrevano Gesù avevano sete di una Parola vera, oggi hanno fame di cibo. Se domenica erano pecore senza pastore, oggi sono anche pecore affamate. Di fronte a così tanta gente che ha fame, i discepoli reagiscono come anche noi diciamo: il cibo è poco e le bocche da sfamare sono troppe. Non c’è soluzione: siamo impotenti! È impensabile che la miseria possa essere sconfitta: al massimo possiamo migliorare l’organizzazione dell’assistenza sociale. Ma Gesù, iniziando dall’offerta di un bambino, prospetta la soluzione: «fateli sedere». Non moltiplica il pane, ma invita a dividerlo. È il miracolo della condivisione: tu sei ricco di ciò che doni. Visto il successo «volevano farlo re». Ma Gesù «sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò sul monte, lui solo».

Oggi rischiamo di fare dell’accumulo il dio della società, della felicità. Il vangelo ci dice che Gesù mentre distribuiva il pane, lo stesso non veniva a mancare: siamo ricchi solo di ciò che doniamo! La folla è religiosa solo in apparenza: vuole un Dio obbediente, un Dio che sfama gratis, uno che tolga le fatiche, i pianti, le paure che popolano il cuore. Da qui nasce il fraintendimento: «E volevano farlo re». Diventare re non sarebbe per Gesù un modo migliore per aiutare le persone? A suo avviso significa entrare in un gioco perverso di potere, in cui non c’è servizio reciproco, ma il servirsi degli altri. La folla vuole usare Gesù ed egli rifiuta questo populismo demagogico. È così che vieta anche oggi alla chiesa di sfruttare la debolezza umana, la sofferenza, la paura e la malattia. Gesù ammonisce la chiesa affinché non spinga le persone a consegnarle la propria coscienza, per ottenere la comprensione, la consolazione e il perdono.

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I discepoli dopo essere stati inviati a predicare ora ritornano per riferire al maestro. Fanno il punto della situazione, il tagliando. Gesù, vedendoli stanchi, dice loro: «Venite in disparte voi soli… e riposatevi un po’».

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Domenica 7 luglio 2024 -14 B (Mc 6,1-6)

Gesù torna al villaggio in cui è nato. Non torna da solo, ma accompagnato da un gruppo di discepoli. Torna a Nazareth per presentare all’antica famiglia la sua nuova famiglia, composta di gente che ha lasciato le reti , il padre sulla barca con gli operai, il banco delle imposte, e lo hanno seguito. È sabato e in sinagoga comincia a insegnare.

Gesù torna al villaggio in cui è nato. Non torna da solo, ma accompagnato da un gruppo di discepoli. Torna a Nazareth per presentare all’antica famiglia la sua nuova famiglia, composta di gente che ha lasciato le reti , il padre sulla barca con gli operai, il banco delle imposte, e lo hanno seguito. È sabato e in sinagoga comincia a insegnare. Ma i suo compaesani concordano che Gesù fa cose fuori dal comune e le sue parole sono strane. La gente passa in fretta dalla meraviglia alla diffidenza e al rifiuto. Quelli di Nazareth sono scandalizzati: No, non può essere lui il Messia! Stiamo scherzando? Il figlio di Giuseppe il falegname? Il Messia non può che essere diverso, grandioso, onnipotente, uno che ha studiato! Anche noi – dicono quelli di Nazareth – stiamo aspettando il Messia, ma non può essere uno che cresce nella bottega di un artigiano, con mani callose, con un naso che respira colle e resine, che distingue i tipi di legno! Gesù disprezzato e stupito, reagisce facendosi guarigione.

Lo scandalo dei compaesani è che Gesù ha rotto gli equilibri, invitando ad abbandonare le sicurezze offerte dalla religione dei loro padri. Il Messia non può venire con mani da falegname, non può essere questo il nostro Dio, che frequenta malati, peccatori e indemoniati. In realtà Gesù sta dicendo che nessuno coincide con i problemi della sua vita: è molto di più! Sta dicendo che non si può riconoscere la sua divinità senza amare prima la sua umanità. Il suo è un invito a non disprezzare mai quelli di casa, perché in loro c’è il DNA di Dio: un Dio domestico. Quelli di Nazareth si stupiscono, ma anche Gesù si meraviglia per la loro incredulità. Accade che ci entusiasmiamo per le messe affollate o i pellegrinaggi ai santuari più in voga e poi… non riusciamo a dare una mano al nostro vicino di casa, di cui spesso a stento conosciamo il nome! I buoni maestri, magari piccoli, tra di noi ci sono, basta ascoltarli e continuare a guarire la vita.

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Domenica 30 giugno 2024 - 13 B (Mc 5,21-43)

Protagoniste del vangelo sono due donne in compagnia di Gesù. La prima è una ragazza di dodici anni segnalata dal padre Giairo, un uomo di chiesa, di fede, che davanti alla sofferenza della figlia che sta per morire la sua religiosità va in crisi.

Protagoniste del vangelo sono due donne in compagnia di Gesù. La prima è una ragazza di dodici anni segnalata dal padre Giairo, un uomo di chiesa, di fede, che davanti alla sofferenza della figlia che sta per morire la sua religiosità va in crisi. La seconda donna, straniera, da dodici anni è colpita da perdite di sangue, considerata impura e colpevole. Gesù, al quel padre che cerca qualcuno su cui appoggiare il suo dolore, dice: “la bambina dorme, non è morta!”, suscitando la derisione di chi lo sente. Alla seconda permette di essere toccato da lei, creando l’imbarazzo dei presenti. Lasciandosi toccare Gesù è giudicato impuro, ma lui è venuto proprio per far cadere queste barriere. Non ha paura della persona impura che cade, ma mostra che Dio la tocca, la risana, la rimette in piedi.

Il padre Giairo chiede a Gesù di “imporre la mani” sulla figlia, mentre la donna che perde flussi di sangue tocca Gesù che si lascia toccare. Entrambi gli incontri con le due donne avvengono per un contatto fisico. Il toccare di Gesù non è un’azione magica, ma umana, umanissima. Gesù ha sentito la fede di quella donna attraverso le sue mani, in quel suo toccare. Abbiamo alle spalle anni e anni di una certa educazione religiosa che aveva in sospetto il corpo. Per Gesù il corpo non è velenoso, ma contiene un’energia buona. A suo avviso bisogna toccare la disperazione delle persone per poterle rialzare. Lo dice a noi, lo dice a tutta la chiesa. Accade che molte persone cercano nella comunità cristiana di toccare Gesù e, invece, trovare dei distributori di regole, degli addetti al culto, dei ripetitori di un disco rotto e lontano dalla vita. Gesù non punta il dito contro di noi, ma ci tende la mano.

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Domenica 23 giugno 2024 - (Mc 4,35-41)

La nostra vita è come il mare di Galilea: a volte calmo e a volte in tempesta. Gli arabi chiamano questo mare “occhio di Dio”: di solito calmo, ma all’improvviso si sollevano alte le onde, che rendono difficile per una barca il ritorno a riva.

La nostra vita è come il mare di Galilea: a volte calmo e a volte in tempesta. Gli arabi chiamano questo mare “occhio di Dio”: di solito calmo, ma all’improvviso si sollevano alte le onde, che rendono difficile per una barca il ritorno a riva. Gesù invita i discepoli a «lasciare la folla», cioè quello che fanno tutti e sale sulla barca con i discepoli. Gesù stanco, durante la traversata, prende sonno e improvvisa si scatena una grande tempesta. Lo svegliano rimproverandolo e dicendo: «Maestro, non ti importa che moriamo?». È strana la richiesta degli esperti pescatori del mare che chiedono aiuto a un falegname. Gesù non risponde loro, ma parla al vento, dicendo: «Taci, calmati!». Egli mette il bavaglio al vento. E disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Il timore li prende e non capiscono ancora chi è quel Maestro.

Anche noi nelle tempeste della vita, diciamo al Maestro: “Dove sei, perché dormi? Non ti importa di me?”. E così aspettiamo un miracolo che ci tolga la tempesta, quando in realtà le tempeste della vita non si evitano, ma si attraversano. Egli non è un estraneo e non dorme, ma si fa presente nelle braccia dei naviganti che remano, nella presa sicura di chi è al timone, nella mani che svuotano l’acqua, negli occhi che scrutano la riva. Dio è presente non come vorrei io, ma come vuole lui: non si sostituisce a me, ma mi salva insieme a me. Non mi difende “dalla” paura ma “nella” paura. È strano il nostro modo di ringraziare Dio perché ci ha salvati dalle inondazioni della vita, quando la bufera fa parte della vita. Non è chiesta la fede nel Dio tappabuchi che risolve i problemi, o una fede come assicurazione contro le burrasche, ma la fede nel Dio che risponde dandoci la forza per attraversarle.

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Domenica 16 giugno 2024 - 11 B (Mc 4,26-34)

Nel tentativo di parlare di Dio spesso ci capita di non trovare le parole adatte. Gesù, invece, ci parla con parabole. Sono parole laiche, di casa, di orto, di lago, di strada, storie di vita.

Nel tentativo di parlare di Dio spesso ci capita di non trovare le parole adatte. Gesù, invece, ci parla con parabole. Sono parole laiche, di casa, di orto, di lago, di strada, storie di vita. Sono immagini di gente che si affatica nell’arte di far nascere, di fiorire, di fruttificare. Il vangelo ci presenta due parabole costruite attorno a un’opposizione: la prima descrive il contrasto tra giorno-notte, la seconda attorno alla polarità piccolo-grande. La prima parabola del seme che cresce da solo dice il mistero della crescita del regno di Dio nella terra. La seconda parabola afferma che Dio privilegia il piccola per innalzarlo, farlo grande. Tutti noi siamo un pugno di terra in cui Dio ha deposto la sua semente vitale, le sue energie e questo è motivo di fiducia, di speranza che ci impedisce di forzare la primavera e ci domanda di rispettare il mistero di ogni vita.

Il seme gettato nella terra cresce di giorno, ma anche di notte, quando lavoriamo e quando dormiamo. Il racconto condanna un protagonismo e un affanno eccessivi. Il seme nella terra della tua vita, di tuo figlio, del tuo nemico, cresce nel silenzio, anche se non lo vedi crescere. Abituati a fare bilanci gridiamo l’assenza di Dio, ma che ne sappiamo noi del seme che cresce nel silenzio? La terra produce «da sé». È una crescita dal di dentro: c’è una forza di Dio dentro questo piccolo seme. Non pensarti vuoto e non pensare nessuno vuoto! Il piccolo granello di senape dice che Dio esalta la piccolezza e la debolezza, in faccia ai prepotenti, ai superbi, a quelli che vivono, parlano e agiscono come fossero un dio. La piccola nostra vita è chiamata a diventare un grande albero sul quale tutti gli uccelli del cielo, tutte le persone di ogni razza, popolo e colore possono trovare ospitalità, senza chiedere da che cielo vengano.

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Domenica 9 giugno 2024 - 10 B (Mc 3,20-35)

Il vangelo ci dice che nella casa in cui entra Gesù si raduna una folla, tanto da non poter neppure mangiare. La casa è piena di gente, ma Gesù è solo.

Il vangelo ci dice che nella casa in cui entra Gesù si raduna una folla, tanto da non poter neppure mangiare. La casa è piena di gente, ma Gesù è solo. Tutti gli sono contro. I suoi lo prendono per pazzo dicendo «è fuori di sé», gli scribi, i professionisti della religione lo considerano «indemoniato», capo dei diavoli. Gesù è considerato «fuori di sé»: ha dei nemici, ma non è nemico di nessuno. Lui è amico della vita. I suoi familiari stando dentro la casa lo mandano a chiamare, ma egli non esce e risponde con una domanda: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Quasi a dire: chi sono quelli di fuori che si vergognano di me, del matto di casa? E risponde: i miei parenti sono quelli che fanno la volontà del Padre: questi sono per me madre, sorella e fratello. Chi ha il mio stesso sangue – dice Gesù – chi si lascia contagiare da un Dio che è esagerato, è pazzo nell’amare senza preferenze.

Nessuno capisce chi è questo Gesù, così fuori dagli schemi. Chi lo accusa gli rimprovera di non essere come loro se lo immaginano, come vorrebbero che fosse. È difficile da accettare: meglio considerarlo “fuori di sé”. Per i familiari è fuori dal modo di pensare di quella casa che sequestra e soffoca le persone, per gli esperti religiosi è uno che bestemmia, cioè offende quel Dio che si sono costruiti come garante del loro prestigio. In realtà è “fuori di sé” perché ha guarito i lebbrosi, ha perdonato l’adultera, ha toccato una donna mestruata, ha accolto pagani e stranieri... Egli contesta la logica della religione come sicurezza superstiziosa nell’aiuto di Dio, a scapito della responsabilità umana. Fa la volontà del Padre chi mette sempre al primo posto la persona, il suo bene, la sua dignità. In verità chi “è fuori” non è Gesù, ma noi quando non amando pensiamo di essere “in casa”.

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Domenica 2 giugno 2024- Corpo e sangue del Signore B (Mc 14,12-16.22.26)

Oggi la liturgia cattolica celebra la festa del “corpo e sangue di Cristo”. Ripetendo l’eucaristia, senza capirne il significato, corriamo il rischio di “cadere nell’abitudine”.

Oggi la liturgia cattolica celebra la festa del “corpo e sangue di Cristo”. Ripetendo l’eucaristia, senza capirne il significato, corriamo il rischio di “cadere nell’abitudine”. All’inizio della chiesa il vero corpo del Signore non era l’eucaristia, ma l’assemblea, le persone riunite. Le cose poi sono cambiate. Divenne un pasto condiviso e nella seconda metà del tredicesimo secolo si accentuò sempre di più nella pietà popolare l’adorazione dell’ostia, tanto che il papa nel 1264 ordinò di celebrare l’eucaristia in tutta la chiesa cattolica. La Scrittura non dice: “prendete e adorate”, ma “prendete e mangiate”. Gesù dice ai suoi: «Prendete questo è il mio corpo». In modo scandaloso egli spezzava il pane e lo mangiava con i peccatori, i pagani, le prostitute, con chi era rifiutato. Non ci lascia raccomandazioni e programmi, ma ci invita a far entrare in noi stessi la sua vita, il suo pensiero, il suo stile, le sue scelte.

Celebrare l’eucaristia non ha nulla di magico, ma rompe il guscio di noi stessi per aprirci agli altri. Gesù non spezza nessuno, ma spezza se stesso; non chiede sacrifici, ma sacrifica se stesso; non versa la sua rabbia, ma il suo amore per tutti. Il cristianesimo è la religione del corpo. Per secoli abbiamo separato la materia dallo spirito. Tutto ciò che era “corpo” era considerato sporco, negativo, terreno del diavolo, dimenticando che il nostro corpo è la casa di Dio. Mangiare quel pane è imparare a vedere il volto di Dio nella moglie, nel marito, nel figlio, nel nemico, nella mano che aiuta, nel pianto, nelle lacrime di gioia… Il corpo è mediazione per riconoscere la presenza di Dio. Posso fare anche la comunione ogni giorno, ma restare del tutto estraneo allo stile di Gesù! Ricevere questo pane è un “mangiare” l’amore. Del resto quando una persona è buona noi diciamo: è buona come il pane.

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Domenica 26 maggio 2024 - Trinità B (Mt 28,16-20)

Oggi la chiesa celebra Dio come “Trinità”: Padre, Figlio e Spirito Santo. Con questo termine non si tratta di definire Dio, ma è un linguaggio simbolico del Concilio di Costantinopoli I° (381), che descrive l’azione con cui Dio si rende presente alle sue creature.

Oggi la chiesa celebra Dio come “Trinità”: Padre, Figlio e Spirito Santo. Con questo termine non si tratta di definire Dio, ma è un linguaggio simbolico del Concilio di Costantinopoli I° (381), che descrive l’azione con cui Dio si rende presente alle sue creature. Nel testo biblico non si parla delle tre persone in un unico Dio. Il termine “Trinità”, tuttavia, è una formulazione antica della fede che ancora oggi può parlare ai nostri cuori. Le dottrine teologiche non sono la fede, ma dei modi provvisori per esprimerla. Il Vangelo non offre formule o concetti, ma un racconto. Si rivolge ai suoi che vedendolo «si prostrarono, ma dubitarono». Proprio a questi dice: «Andate… fate miei discepoli tutti i popoli, battezzandoli… e insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato,… sono con voi tutti i giorni fino alla fine».

Il Risorto, per spiegare chi è Dio, non convoca le migliori intelligenze del tempo, ma undici pescatori, consapevoli di dubitare, di non capire, persone che si sentono piccole e avvolte da un mistero più grande di loro. Il Risorto si avvicina a tutti, anche a quelli che dubitavano ancora, a quel gruppo che ha conosciuto il tradimento, la fuga, il suicidio di uno di loro. Questi pescatori capaci di adorare e di dubitare siamo noi, che ogni giorno sperimentiamo l’avvicinarsi del Risorto che per raccontarci di Dio usa le parole di famiglia: padre, figlio e respiro di vita. In altre parole ci dice che Dio è relazione, è compagnia, è amore. Per spiegare quella che chiamiamo “Trinità”, il Risorto ci racconta che cosa Dio fa per noi: ci ama. È impossibile spiegare il motivo per cui una persona ama qualcun altro. Possiamo sprecare fiume di parole per spiegare che cos’è l’amore, ma lo capiamo realmente solo quando facciamo quell’esperienza. Le cose di Dio si capiscono amando!

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Domenica 19 maggio 2024 - Pentecoste B (Gv 15,26-27; 16,12-15)

Dal greco il termine “Pentecoste” significa cinquantesimo giorno e si celebra cinquanta giorni dopo la Pasqua. Nell’antichità il numero 50 indicava la pienezza di un tempo. All’età di cinquant’anni a Roma si era dispensati dal sevizio militare e per gli ebrei il cinquantesimo anno era l’anno del giubileo.

Dal greco il termine “Pentecoste” significa cinquantesimo giorno e si celebra cinquanta giorni dopo la Pasqua. Nell’antichità il numero 50 indicava la pienezza di un tempo. All’età di cinquant’anni a Roma si era dispensati dal sevizio militare e per gli ebrei il cinquantesimo anno era l’anno del giubileo. La Pentecoste, quindi, indica che un tempo è finito. Il tempo del Gesù storico è finito e si apre quello della chiesa in cui ci sentiamo dire: “Uscite, non abbiate paura, ora avete la forza per farlo. Con voi c’è il mio Spirito. Non è una cosa, ma una presenza: è l’Amore. È un linguaggio che precede le diverse lingue, comprensibile da tutte le persone che appartengono a culture e religioni diverse. Nel racconto biblico non mancano anche esperienze contrarie: Adamo ed Eva pretendono di essere Dio, Caino che uccide il fratello, a Babele gli uomini parlando non si capiscono.

Lo Spirito ci rende persone spirituali, che non significa disincarnate, senza i piedi per terra, fuori del mondo. Di solito chiamiamo “persona spirituale” un monaco, una suora di clausura, un eremita che prega tutto il giorno, ma in realtà non è la persona quella che fa cose religiose, che frequenta la chiesa o fa tante devozioni e pellegrinaggi. La “persona spirituale” vive mostrando ciò che ha dentro. È un modo di vivere. Non è più come “il Dio davanti a noi” di Mosè, non solo il Dio “con noi” del Nazareno, ma addirittura il Dio “in noi”. Lo Spirito di Dio parla a ogni essere umano e viene prima di tutte le divisioni, le razze, le nazioni, le ricchezze, le culture, le età e le religioni. Questo Spirito ci insegna a non considerare mai nessuno inferiore, a valorizzare le diversità, a non pretendere che l’altro assomigli a noi. La Parola di Dio diventa la mia lingua, la mia passione, la mia vita, il mio respiro. Noi diciamo: che spirito ha quella persona! È lo Spirito di Dio all’opera.

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Domenica 12 maggio 2024 - Ascensione B (Mc 16,15-20)

La Pasqua, l’Ascensione e la Pentecoste fino al V secolo formano un’unica festa, un solo evento. Gesù morto e risorto, sale al cielo e rimane in mezzo a noi con la forza dello Spirito Santo.

La Pasqua, l’Ascensione e la Pentecoste fino al V secolo formano un’unica festa, un solo evento. Gesù morto e risorto, sale al cielo e rimane in mezzo a noi con la forza dello Spirito Santo. Perché il Risorto se n’è andato? Non poteva restare in mezzo a noi da Risorto? Egli si libera del tempo e dello spazio per lasciarsi incontrare nella libertà, nel silenzio, nella distanza, ma non nella separazione. Da quel giorno in cui è salito al cielo in Dio c’è un uomo: Gesù di Nazareth. Da quel momento nessuno può più dire che Dio non conosce la fatica la sofferenza, la fatica del lavoro, al morte. Solo il cristianesimo ha osato porre un corpo di uomo nella profondità di Dio. Disse ai discepoli: «Andate in tutto il mondo e proclamate il vangelo… Nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti, imporranno le mani ai malati».

Non dice organizzate, alzate la voce, occupate i posti chiave nella società, ma:andate e annunciate il vangelo. È la prima chiesa in uscita! Non ci lascia soli ma «agisce insieme». Colui che ha aiutato le persone a liberarsi dalle catene, dai serpenti, dai veleni, oggi ti aiuta a cacciare il diavolo dell’angoscia, a prendere in mano i tuoi serpenti, a guardare in faccia le tue paure, i tuoi sensi di colpa, il rimorso che ti opprime. C’è chi sparge veleni nella vita, nelle menti, chi dà da bere falsità e cattiverie. Nella tua forza c’è la Sua, che ti permette di guardare senza panico i poteri che mordono e avvelenano senza diventarne vittima. Inoltre dà una consegna: «parleranno lingue nuove». Se le nostre comunità non imparano a parlare lingue nuove, a dire Dio in modo diverso, a dare spazio a nuove voci, a nuove pratiche pastorali, rischiano di chiudere bottega. Egli ti chiede di tendere la mano a chi soffre. Il vangelo non dice che “guarirà”, ma che “avrà del bene”, “sarà bello per lui”, “starà meglio”.

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Domenica 5 maggio 2024 - 6 di Pasqua B (Gv 15,9-17)

l vangelo ascoltato continua quello della scorsa domenica della vite e dei tralci. Oggi Gesù spiega ciò che avviene in coloro che rimangono uniti a lui dicendo: «Come il Padre ha amato me, anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore».

Il vangelo ascoltato continua quello della scorsa domenica della vite e dei tralci. Oggi Gesù spiega ciò che avviene in coloro che rimangono uniti a lui dicendo: «Come il Padre ha amato me, anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore». Gesù ama le persone con lo stesso amore del Padre, mostrandolo fino a dare la vita. Il suo appello è di rimanere nel suo amore. “Rimanere” significa trattenersi, non scappare, non allontanarsi. I suoi comandamenti sono un unico comando: «che vi amiate gli uni gli altri». Non dice semplicemente: vogliatevi bene. sarebbe solo sentimentalismo, una necessità della convivenza umana, perché se non ci amiamo ci distruggiamo. Non dice nemmeno: amate gli altri con la misura con cui amate voi stessi. Non possiamo essere noi la misura dell’amore.  ma aggiunge: «amatevi come io vi ho amato». È Lui la misura dell’amore che chiama amici i servi.

Gesù non dice: “amate quanto me”, perché il confronto sarebbe schiacciante. Ma afferma: «come me». È questo “come” lo specifico del cristianesimo. Non basta amare, perché potrebbe essere solo sentimentalismo, un fatto consolatorio, una forma di possesso o di potere. Ci sono infatti anche amori violenti e disperati. Non si ama il mondo in generale, non in modo astratto e non solo la domenica, ma una ad una. È proprio il legame con Gesù, l’essere suoi amici che si permette di diventare fratelli e sorelle, con le nostre differenze, senza archiviare la libertà. Possiamo stare con una persona tutta una vita donandoci corpo, tempo, cose, ma se non doniamo ciò che abbiamo dentro, il meglio di noi stessi, rischiamo di vivere come estranei sotto lo stesso tetto. Gesù chiama amici Giuda che lo tradisce, Pietro che lo rinnega e tutti gli altri che lo abbandonano. Anche chi appartiene alle cosiddette “cattive compagnie” (persone giudicate sbagliate, cattive e imperfette) merita di essere chiamato amico.

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Domenica 28 aprile 2024 - 5 B di Pasqua (Gv 15,1-8)

Il nostro è un Dio agricoltore, che non solo odora di pecore, non solo le strappa agli attacchi dei lupi, ma che lavora anche i campi, la sua vigna. Egli ci porta a scuola in un vigneto.

Il nostro è un Dio agricoltore, che non solo odora di pecore, non solo le strappa agli attacchi dei lupi, ma che lavora anche i campi, la sua vigna. Egli ci porta a scuola in un vigneto. Quello di Israele era stata piantato in un terreno fertile, ma deluse Dio. Cominciò a produrre uva acida, ma nonostante l’infedeltà Dio non l’abbandonò, perché i doni che Dio dà non li può cancellare. Se nell’Antico Testamento Dio era il padrone della vigna, ora Gesù afferma qualcosa di nuovo: «Io sono la vite, voi siete i tralci». Diventando carne il vignaiolo si è fatto vite, il seminatore si è fatto seme, il vasaio si è fatto argilla. Egli è un Dio che lavora l’uomo, così come lavora la vite per non far mancare la linfa al tralcio. «Ogni tralcio che porta frutto lo pota, perché porti più frutto». Non solo il tralcio secco, ma anche quello vivo lo pota, per dargli più forza, perché porti più frutto.

Il tralcio non sta solo vicino alla vite, ma vive se è innestato in essa, se lascia passare la linfa. Perciò Gesù dice: «Rimanete in me e io in voi». È un’intimità che supera la distanza. Il tralcio pur unito alla vite non porta automaticamente frutto, ma deve essere potato. Il confronto costante con Gesù e con la sua Parola, è una continua e necessaria potatura. Quale tralcio desidera staccarsi dalla pianta? Come il tralcio staccato dalla vite non produce più frutto, così l’uomo separato da Cristo rischia di non riuscire più ad amare. Non basta il segno di croce, la messa domenicale, l’essere in regola con i sacramenti o la pura religiosità devozionale come un soprammobile. Staccati dalla persona di Gesù, dal Vangelo, diventiamo cristiani minorenni, infantili, incapaci di fare nostre le sue scelte. Non ci viene detto che restare uniti a Lui diventiamo famosi, fortunati e ricchi. La promessa è un’altra: «porterete molto frutto», secondo le mille modalità dell’amore.

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Domenica 21 aprile 2024 - 4 di Pasqua B (Gv 10,11-18)

Non sorprende che anche in tempi di crisi di fede, di pratica domenicale, la maggioranza dei cristiani continua a credere in Dio. Ma quando si verifica su quale Dio ci si rende conto che non è quello di Gesù.

Non sorprende che anche in tempi di crisi di fede, di pratica domenicale, la maggioranza dei cristiani continua a credere in Dio. Ma quando si verifica su quale Dio ci si rende conto che non è quello di Gesù. è un Dio che si adegua alla giustizia dell’uomo, che premia e punisce in base ai meriti, si accontenta del culto, regala benedizioni ai suoi devoti. È un Dio Onnipotente, capace di farsi rispettare. Nel vangelo il Dio cristiano è descritto con il volto del pastore chiamato “bello”, che con coraggio si pone contro i lupi, contro i mercenari. Il pastore, diversamente dai guardiani a pagamento, conosce le sue pecore, chiama ciascuna per nome, di fronte al pericolo non scappa, fa scudo tra le sue pecore e il pericolo, per difendere ogni sua pecora è talmente esagerato da dare la vita.

Chi è il mercenario, il pecoraio? È l’operaio senza passione, che di fronte al pericolo scappa, al quale non interessa la sorte delle pecore, ma lo stipendio. Diversamente che cosa si dice del pastore? Lo si descrive come appassionato che non può stare bene finché non sta bene ogni sua pecora. È un pastore che consola, che fascia le ferite, che alleggerisce i pesi, che rallenta il passo perché nessuno del gregge rimanga indietro. Nello stesso tempo questo pastore è definito “bello”. Non è la bellezza dell’aspetto, dell’apparenza, ma quella disarmante e disarmata di chi offre la vita per gli altri. è la bellezza di chi è una persona autentica, coraggiosa, dal cuore grande tipica di chi non fa calcoli e la trovi sempre disponibile. Gesù ci suggerisce che dire a qualcuno: “tu sei bello” è come dirgli “ti voglio bene”.

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Domenica 14 aprile 2024 - 3 di Pasqua B (Lc 24,35-48)

Ma come – sembra dire Gesù? Avete appena detto che sono apparso a Simone e ora arrivano due amici a dirvi di avermi riconosciuto in una locanda di Emmaus, i quali «Stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma».

Ma come – sembra dire Gesù? Avete appena detto che sono apparso a Simone e ora arrivano due amici a dirvi di avermi riconosciuto in una locanda di Emmaus, i quali «Stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma». Lo hanno sentito dire con le loro orecchie: «Pace a voi» e ancora dubitavano. Colpisce il lamento di Gesù: non sono un fantasma, non sono un’ombra sul muro della vita, un sogno a occhi aperti, non sono un soffio di parole: «guardate le mie mani e i miei piedi», «toccatemi», mangiamo. Ed ecco la reazione inspiegabile: «per la grande gioia non credevano». Come conciliare la gioia con il dubbio? Gesù aiuta i suoi aprendo la loro mente alle Scritture. Questa è la sua terapia per giungere a comprendere le sue ferite come apice di una vita spesa per amore. Non chiede di digiunare per Lui, ma di mangiare con Lui, di vivere in sua compagnia alla tavola della vita.

Così fa il Risorto: appare e scompare, si rende visibile e invisibile, tace e ci sfiora con la sua voce silenziosa. Pone in dialogo morte e vita, carne e spirito, paura e certezza, tristezza e gioia. Questo crocifisso-risorto torna tra noi senza far rumore, cammina accanto ai nostri passi, non si siede in trono, non rimprovera, ma tranquillizza i cuori agitati, mostra le ferite come i documenti di identità e mangia insieme un porzione di pesce arrostito. Dove oggi posso toccare il Signore risorto? Le persone sono il suo corpo ferito: lì lo posso toccare. Egli si mostra con gradualità nei posti più normali della vita, come la strada, la casa, il giardino, la sponda del lago. Noi, credenti del “tutto e subito”, abbiamo fretta, ma dall’impazienza religiosa nascono in convinzioni fragili, certezze fatte di emozioni. Oggi puoi toccare il Risorto quando riconosci e ti prendi cura delle ferite delle persone. Così fai risorgere e ritrovi la vita.

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Domenica 7 aprile 2024 - 2 di Pasqua B (Gv 20,19-31) 

«Otto giorni dopo venne Gesù e stesse in mezzo a loro». Perché ricercati dai Giudei, i suoi discepoli sono morti di paura e chiusi in quel Cenacolo che è diventato un sepolcro.

«Otto giorni dopo venne Gesù e stesse in mezzo a loro». Perché ricercati dai Giudei, i suoi discepoli sono morti di paura e chiusi in quel Cenacolo che è diventato un sepolcro. Viene al centro, dentro le loro paure. Anche se trova sbarrate le porte il risorto non se ne va. Anzi, porta il soffio di Dio, la sua forza. Non si scandalizza dei dubbi di Tommaso, non gli rimprovera la fatica di credere, ma si avvicina ancora e mostra le mani e il fianco: è la sua carta di identità di Crocifisso. La nostre mani indicano il potere di aiutare o di ferire, mentre quelle di Gesù hanno lavato i piedi, sono mani inchiodate al servizio dell’uomo. Lui non si vergogna di chiamare “fratelli” quelli che l’hanno abbandonato, tradito e consegnato ai nemici. A questi non chiede nulla ma porta la sua pace. Non è la semplice fine delle guerre o delle violenze, ma la forza appassionata dentro le vite spente.

Come è successo ai discepoli che i Giudei hanno fatto buio nelle loro esistenza, così accade a anche a noi che molte persone fanno buio nel nostro cuore, tanto da farlo diventare un “sepolcro”. Sono molte le persone anche buone, ma deluse e dubbiose, che se ne stanno in disparte dalla chiesa. Forse le nostre parrocchie hanno gli occhi tristi e vedono ovunque erbacce da sorvegliare o da estirpare. In questo modo nasce la chiesa della paura, nemica della vita e della felicità. Non ci è chiesto di rinchiuderci in cenacoli di gente ossessionata dalla presenza del male, perché il Dio cristiano guarda con fiducia alle persone e al mondo: non è una sorgente asciutta, un fiume disseccato, un fuoco spento, un padre deluso. Il Risorto non va a casa di Tommaso a fargli visita, ma lo incontra nella comunità riunita, anche se fragile e piena di paure. E noi siamo quelli che, ogni otto giorni, dopo duemila anni, continuiamo a riunirci nel suo nome senza averlo visto con gli occhi e toccato con le mani.

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Sergio Gaburro Sergio Gaburro

Domenica 31 marzo 2024 - Pasqua B (Gv 20,11-18)

Vicino al sepolcro Maria di Magdala esce di casa quando è ancora buio nel cielo e buio nel cuore. Non capisce che cosa è successo tra la notte e il giorno.

Vicino al sepolcro Maria di Magdala esce di casa quando è ancora buio nel cielo e buio nel cuore. Non capisce che cosa è successo tra la notte e il giorno. Quando tuttavia le cose non si vedono supplisce il cuore. Maria va da sola. Lei che è donna, diversamente dagli uomini che hanno paura, non ha paura: va sola, perché il suo cuore era presso il maestro crocifisso. Tutto sembrava finito e invece no: il sepolcro è spalancato, come un grembo che ha partorito. Gesù le parla: donna perché piangi? Si occupa di chi ha paura, delle lacrime e del dolore di Maria. Non dice “guarda me”, ma trema insieme al cuore della sua amica. Per primo il risorto vede un volto solcato di lacrime, vede il mondo in un immenso pianto vede il nostro pianeta di tombe. Il primo sguardo del risorto si posa sempre sul dolore, sulla povertà dell’essere umano e mai sul peccato. Non impedisce le lacrime ma le raccoglie. E dice a Maria: «Non mi toccare».

Il risorto dice a Maria e a noi: «Non mi trattenere». D’ora in poi dovrete imparare uno modo differente per entrare in relazione con me, una modalità nuova per sentirmi presente.È l’esperienza che facciamo quando perdiamo una persona cara che ci dice: “non mi trattenere”. Oltre l’assenza comincia a sentirmi presente dentro di te senza potermi toccare, porta dentro le mie parole più sagge, custodisci il meglio delle mie scelte. Eaggiunge: «Va dai miei fratelli». Gesù risorto ci manda tra i barconi che affondano, tra le stazioni che esplodono, tra i milioni di Pilati che si lavano le mani, tra le folle di persone che non hanno cibo, acqua, casa, amore, ci manda su questa terra avvelenata per interessi, potere, denaro. L’appello del risorto ci introduce a una fraternità nuova e istituisce il sacramento della fraternità. «Non mi toccare», non fare di me qualcosa che tu trattieni per te, ma diventa fratello e sorella di tutti. E sarà Pasqua!

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Sergio Gaburro Sergio Gaburro

Domenica 24 marzo 2024 - Palme B (Mc 14,1-15-47)

Oggi è la domenica delle Palme. Gesù entra a Gerusalemme. Quelli che lo acclamano chiamandolo «Benedetto» sono gli stessi che qualche giorno dopo grideranno «Crocifiggilo!».

Oggi è la domenica delle Palme. Gesù entra a Gerusalemme. Quelli che lo acclamano chiamandolo «Benedetto» sono gli stessi che qualche giorno dopo grideranno «Crocifiggilo!». Accade di essere pronti a venderci per qualche sicurezza in più, siamo pronti a sventolare palme e ramoscelli di olivo come fossero portafortuna, per garantirci una vita assicurata contro le disgrazie. Pietro dice di essere pronto a dare la vita per il maestro ma poi crolla davanti alla domanda di una serva. I discepoli nel momento più doloroso dormono o scappano. Per non parlare del bacio di Giuda… Nel racconto della passione non si sono buoni e cattivi, ma ci siamo noi, battezzati che scappiamo, tradiamo e d’accordo con il Pilato di turno crocifiggiamo il Maestro. Gesù non si chiede se valga la pena morire per queste persone, ma sceglie la croce per restare vicino a tutti coloro che sono in croce.

C’è tutta un’umanità che ruota attorno alla croce. Le autorità religiose e la loro falsità, le autorità politiche interessate al potere, i soldati che insultano il Crocifisso e quelli che passano pronti a prenderlo in giro. La storia si ripete. Tutto il vangelo di Marco ruota attorno alla domanda: “Chi è Gesù?”.Ed ecco la risposta sulle labbra di uno straniero, di un pagano, non su quelle di un discepolo: «Davvero costui era figlio di Dio». Il soldato abituato al fatto che la vittoria sta nel più forte e nel più armato, riconosce il grande potere disarmato dell’amore. La violenza attraversa silenziosamente anche le nostre strade che portano di nome della corruzione, della ndrangheta, della disonestà, che fanno cassa con la paura e l’ignoranza. Si uccide anche con il silenzio, la rassegnazione, l’indifferenza. Chi ama, a causa di questo Messia crocifisso,porta gratuitamente la croce. Vedendo la suora che curava i lebbrosi un tale gli disse: “non lo farei per tutto l’oro del mondo”. E lei rispose: “neanch’io”.

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Sergio Gaburro Sergio Gaburro

Domenica 17 marzo 2024 - 5 quaresima B (Gv 12,20-23)

Entrando a Gerusalemme il Nazareno provoca un grande fraintendimento. Le folle lo osannano come re prima di abbandonarlo del tutto, gli oppositori tramano contro di Lui, i discepoli capiscono e non capiscono.

Entrando a Gerusalemme il Nazareno provoca un grande fraintendimento. Le folle lo osannano come re prima di abbandonarlo del tutto, gli oppositori tramano contro di Lui, i discepoli capiscono e non capiscono. Nello stesso tempo Gesù incuriosisce dei Greci, cioè degli estranei, dei pagani simpatizzanti con una richiesta precisa: «Vogliamo vedere Gesù». Non è il vedere del toccare con gli occhi, ma del togliere le ombre sulla persona per conoscerla. E Gesù si fa realmente vedere, mostra il suo volto in termini che sorprendono. Volete capire chi sono? Guardate la croce. Osservate il chicco di grano che cadendo in terra muore e porta molto frutto. Proprio da  ciò che marcisce e sembra inevitabilmente perduto sboccia la vita e un frutto abbondante, non sperato. Non manca il turbamento e Gesù lo riconosce, ma non manca neanche la fiducia incrollabile nel Padre.

Secondo l’insegnamento di Gesù questa su radicale fiducia in Dio ci suggerisce di fidarci quando nella nostra vita i frutti non si vedono o tardano a mostrarsi, quando il fico piantato nel terreno delle nostre giornate non germoglia, quando nella vigna dei nostri programmi non c’è frutto, quando l’ulivo della pace piantato tra i parenti non produce, quando la nostra sicurezza sparisce dall’ovile delle nostre famiglie… Gesù non è mai caduto nella trappola del “tutto e subito”, ma seminava nei piccoli solchi del quotidiano. Il senso della nostra vita non sta nel morire, ma nel portare frutto. La paura più grande di Gesù non è la morte, ma del rischio di essere insignificanti. Secondo Gesù pensare solo a se stessi è limitarsi arespirare, aiutare qualcuno è cominciare avivere! La promessa di Gesù è chiara: il seme «produce molto frutto», già da oggi, anche se i nostri occhi stanchi e scoraggiati non lo vedono.

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Sergio Gaburro Sergio Gaburro

Domenica 10 marzo 2024 - 4 quaresima B (Gv 3,14-21)

Chissà quella notte che cosa si siano detti Nicodemo e Gesù! Non sappiamo che cosa Nicodemo, questo saggio fariseo abbia detto, ma il vangelo ci riferisce quello che gli ha detto il Nazareno.

Chissà quella notte che cosa si siano detti Nicodemo e Gesù! Non sappiamo che cosa Nicodemo, questo saggio fariseo abbia detto, ma il vangelo ci riferisce quello che gli ha detto il Nazareno. Nicodemo è un profondo conoscitore della Scrittura, ma avverte che gli manca qualcosa, si percepisce in ricerca e va da Gesù. In questo modo interpreta ogni uomo che non si accontenta. Gesù gli dice: «Come Mosè innalzò il serpente, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo». In altre parole come un tempo chi guardava il serpente di rame guariva, così chi guarda il Crocifisso trova protezione e liberazione. E Gesù aggiunge: «Dio non ha mandato il Figlio per giudicare il mondo, ma per salvarlo». Dio non avvia processi contro di noi, neppure per assolverci, ma ci ama come siamo anche se lo mettiamo in croce. Dio ha però un difetto: rispetta la nostra libertà di farci del male.

In che cosa consiste la salvezza? Nel credere nella forza dell’amore. Chi, infatti, non crede in questa forza non può vivere. Noi non siamo cristiani perché amiamo Dio, ma perché crediamo che Dio ci ama. Lui è un Dio più grande dei nostri sensi colpa, che supera e copre le nostre vergogne, che non si ferma alle apparenze, ma guarda al piccolo seme buono che posto in ciascuno. Certo, se ami esci allo scoperto, sei vulnerabile. Se fosse sufficiente il battesimo per dirci cristiani, sarebbe davvero facile dire chi lo è e chi non lo è. Se bastasse il crocifisso appeso sulle pareti di una casa, sarebbe facile dire quali sono le case “cristiane”. In realtà la verifica è un’altra. Si tratta di osservare se la qualità della vita, delle relazioni, dell’incontro nella comunità cristiana è secondo lo stile di Gesù. Il vero senza-Dio non è chi non crede, ma chi non ama anche i serpenti, cioè coloro che mordono con il loro veleno.

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