Domenica 26 novembre 2023 - Cristo re A (Mt 25, 31-46)
«Ciò che avete fatto ai miei fratelli, è a me che l’avete fatto». Gesù ci sta dicendo che il povero è il cielo di Dio. Nel suo cielo noi entreremo solo se saremo entrati nella vita del povero. Un detto ebraico dice: se un uomo chiede il tuo aiuto, non dirgli devotamente “rivolgiti a Dio, abbi fiducia, poni in Lui la tua sofferenza”, ma agisci come se Dio non ci fosse, come se in quel momento al mondo ci fossi solo tu per aiutarlo. Non si tratta di compiere opere di misericordia e di giustizia sociale per guadagnarci la salvezza, il paradiso, ma le opere che compiamo a favore di chi è in difficoltà dimostrano che siamo già stati salvati. La nostra mano tesa non è la causa della salvezza, ma la prova che Dio ci ha salvati e ci ha resi capaci di aiutare altri a stare meglio. Alla fine questo Re non chiederà se abbiamo fatto qualcosa per Lui, ma per chi ha bisogno.
Da piccoli siamo stati educati con domande e risposte del catechismo. Una domanda chiedeva: “Per quale fine Dio ci ha creati?” E la riposta da imparare a memoria era: “Per conoscere, amare e servire Dio in questa vita e goderlo per tutta l’eternità”. Nella risposta mancava una parte essenziale: come servire Dio, se non in chi ha fame, in chi ha sete, in chi era straniero, nudo, malato, in carcere? Il giudizio finale non sarà sugli atti di culto, sul numero delle preghiere o sulle cose che ci hanno fatto arrabbiare nella vita, ma sulla qualità delle relazioni che abbiamo costruito con gli altri. Avremo sorprese che non immaginiamo: non credenti e senza dio che passeranno avanti a coloro che magari si sono illusi di una religiosità formale e di convenienza. Il rischio dei paraticanti è di accontentarsi di fare “gargarismi” domenicali con il nome di Dio e usarlo come bastone per schiacciare gli altri, non facendosi trovare agli appuntamenti con chi è nel bisogno. La separazione finale non sarà secondo l’etnia, ma morale: tra giusti e ingiusti, tra quando siamo stati pecore e quando capre.