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33- A (Mt 25,14-30)

Davanti a questa parabola spesso si è semplificato dicendo: metti a disposizione i tuoi talenti, le tue doti, le tue capacità e non sotterrarle. Questo aspetto è vero, ma il suo significato è più profondo. I talenti non sono semplicemente le doti o le capacità che Dio dà a ogni persona, ma le responsabilità che ciascuno è chiamato ad assumere. Nella parabola, infatti, si dice che il padrone diede a chi cinque talenti, a chi uno, secondo le capacità di ciascuno. Ciò significa che il padrone ha fiducia nei suoi dipendenti, li conosce bene e valuta a chi può dare di più e a chi di meno. I primi due servi riconoscono la fiducia del padrone e moltiplicano ciò che hanno ricevuto. Il terzo, invece, non corre rischi, si limita a «conservare». Che cosa fa la differenza tra i primi due servi e il terzo? La paura, che si mostra in tre modi.

Davanti a questa parabola spesso si è semplificato dicendo: metti a disposizione i tuoi talenti, le tue doti, le tue capacità e non sotterrarle. Questo aspetto è vero, ma il suo significato è più profondo. I talenti non sono semplicemente le doti o le capacità che Dio dà a ogni persona, ma le responsabilità che ciascuno è chiamato ad assumere. Nella parabola, infatti, si dice che il padrone diede a chi cinque talenti, a chi uno, secondo le capacità di ciascuno. Ciò significa che il padrone ha fiducia nei suoi dipendenti, li conosce bene e valuta a chi può dare di più e a chi di meno. I primi due servi riconoscono la fiducia del padrone e moltiplicano ciò che hanno ricevuto. Il terzo, invece, non corre rischi, si limita a «conservare». Che cosa fa la differenza tra i primi due servi e il terzo? La paura, che si mostra in tre modi. Si può pensare che la prima paura del terzo servo è degli altri, di ciò che potrebbero dire di lui. Si sente svantaggiato e meno dotato degli altri perché ha un solo talento. È facile confrontarsi con qualcuno inferiore a noi e disprezzarlo o con qualcuno superiore a noi e disprezzarci. Quest’uomo seppellisce l’unico talento! La seconda paura è di Dio, quando la esprime apertamente affermando: «Signore so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso». Quale idea di Dio ha quest’uomo? Chi non sarebbe paralizzato da un Dio che non ammette errori, nemico dell’uomo? La disgrazia più grande è credere in un Dio sbagliato. Sono ancora molti i cristiani che pensano Dio come un ragioniere spietato, che si diverte a punire chi sbaglia o che fa piovere dal cielo favori dopo aver controllato il numero delle devozioni o dei meriti acquisiti. Ma questo è un incubo e non il Dio cristiano! Il servo ha paura di Dio e quindi ha paura della vita. La terza paura, non detta, è di sbagliare: questo uomo non vuole fare errori e per questo fa l’errore più grande. Chi pensa di voler essere perfetto, in realtà non vive. Il vangelo ci invita a comprendere che il talento ricevuto è una responsabilità. Le nostre risorse non sono solo per noi, ma per i nostri familiari, per le persone accanto, per i nostri vicini, per i nemici, per quelli che soffrono, per le vittime dell’ingiustizia. Cosa hai fatto del tuo talento? - ci dice Gesù. La paura di rischiare ci porta a seppellire la nostra vita, quella che Dio attende porti frutto. Sono ancora tanti i cristiani che confondono l’umiltà con l’elegante rifiuto delle proprie responsabilità e sotterrano il tesoso prezioso che hanno ricevuto in dono. È la paura di osare il primo passo nelle relazioni umane compromesse, di fare il primo gesto di pace con chi ci ha ferito, di uscire allo scoperto e rischiare di amare in perdita. Quanto personale medico, in questa stagione di Covid-19, sta rispondendo con generosità e responsabilità alle urgenze che si presentano! Il vangelo di oggi contesta quella falsa educazione, di cui portiamo le tracce dolorose, che consiste nella sfiducia in se stessi, nella squalifica dei doni personali, quale presupposto per pensare che nel disprezzo di se stessi cresca la gloria di Dio. Il dono gratuito della vita che abbiamo ricevuto, ci domanda di condividerlo gratuitamente con altri. Ciascuno di noi è talento di Dio: dato non per se stessi, ma per gli altri.

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32 – A (Mt 25,1-13)

La parabola del vangelo ci riferisce di una strana festa di matrimonio. Non si parla della sposa e non è facile capire questo sposo che arriva in ritardo a mezzanotte, è accolto da cinque ragazze definite “sagge” e rovina la festa alle altre cinque chiamate “stolte”, sbattendo loro la porta in faccia. Che cosa dire, poi, di queste dieci ragazze che, mentre attendono lo sposo, tutte si addormentano? Si dice che lo sposo è in ritardo. La comunità di Matteo sente il peso e l’affanno della lunga attesa del Signore. I calcoli non tornano più. I problemi sono gli stessi e la promessa di un mondo diverso sembra svanire.

La parabola del vangelo ci riferisce di una strana festa di matrimonio. Non si parla della sposa e non è facile capire questo sposo che arriva in ritardo a mezzanotte, è accolto da cinque ragazze definite “sagge” e rovina la festa alle altre cinque chiamate “stolte”, sbattendo loro la porta in faccia. Che cosa dire, poi, di queste dieci ragazze che, mentre attendono lo sposo, tutte si addormentano? Si dice che lo sposo è in ritardo. La comunità di Matteo sente il peso e l’affanno della lunga attesa del Signore. I calcoli non tornano più. I problemi sono gli stessi e la promessa di un mondo diverso sembra svanire. In realtà il vangelo ci sta dicendo che questo non è il tempo di incrociare le braccia e attendere sul divano, ma di rimboccarsi le maniche, di essere vigili, attenti, pronti a ogni evenienza, anche al ritardo. Il pericolo è di buttarsi alla pazza gioia perché il Signore ritarda, oppure non avere la pazienza di attendere il suo ritorno. Non è la vicinanza o la lontananza del ritorno del Signore che rende importante il tempo che viviamo, ma è importante perché è ricco di possibilità nuove. Nell’attesa c’è il peso della notte, perché la sonnolenza vince le dieci ragazze. Esse sono il simbolo della comunità non perfetta, nella quale c’è gente sveglia e gente addormentata. Anzi, ciascuno di noi conosce le due stagioni della saggezza e della stoltezza, dell’impegno e dell’egoismo.

Anche noi, attraversati da un virus mascherato, stiamo vivendo il peso della notte, in cui sembra dominare l’ansia, la depressione, il disturbo da attacchi di panico. La notte del virus invita a dormire, ad addormentarsi prevalentente sui propri bisogni, a tenere le distanze dalle persone, a spegnere la fiducia e a guardare con incertezza all’alba del domani. Per molte persone è la notte della mancanza di lavoro, della poca salute. Ma nel pieno della notte, dice il vangelo «a mezzanotte, si alzò un grido: “Ecco lo sposo. Andategli incontro”». Anche nel cuore delle nostre notti più buie si alza una voce silenziosa che ci risveglia, perché le torce della speranza si stanno spegnendo. Ed ecco la richiesta: «Dateci un po’ del vostro olio perché le nostre lampade si spengono». La risposta è secca: «no, perché non venga a mancare a noi e a voi». L’evangelista non ci dice che cos’è l’olio, ma fa pensare che non può essere prestato, né diviso. Forse l’olio che dà luce sono i gesti di amore, quelli che danno vita agli altri. Nessuno può prestare le proprie opere buone all’altro. Un altro non può amare al posto mio, essere buono o onesto al posto mio, incontrare Dio al posto mio. Non è sufficiente dire: ho una zia suora, un amico prete, in famiglia abbiamo un monsignore, sapesse quanti rosari recita mia mamma…! Nell’ora dell’incontro con il Signore, l’olio dev’essere il nostro. Tuttavia per restare sentinelle nel tempo della prova c’è bisogno della mia e della tua luce, del mio e del tuo amore. Senza l’olio delle altre persone, la lampada della nostra vita si sarebbe spenta mille volte. Noi stiamo in piedi e camminiamo con fiducia grazie alla vicinanza, all’amore e all’umanità delle persone che ci regalano l’olio della loro lampada e continuano a farlo. La notte, l’ombra fa paura, ma non dimentichiamo che l’ombra c’è dove c’è la luce!

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31 –Tutti i santi (Mt 5,1-12)

In questa giornata, che la liturgia dedica a tutti i Santi, il vangelo ci fa riascoltare il programma di Gesù all’inizio del suo ministero, quando ripete la parola: beati/felici/fortunati! Non possiamo negare che questa lista di beati ci mette un po’ tutti a disagio. Di che cosa si tratta? È una storiella da raccontare ai bambini perché non abbiamo paura del mondo e crescano ottimisti? È forse un parlare pubblicitario che descrive paesaggi perfetti, quanto impossibili? Che cosa significa ripetere il termine “beati” per otto volte?

In questa giornata, che la liturgia dedica a tutti i Santi, il vangelo ci fa riascoltare il programma di Gesù all’inizio del suo ministero, quando ripete la parola: beati/felici/fortunati! Non possiamo negare che questa lista di beati ci mette un po’ tutti a disagio. Di che cosa si tratta? È una storiella da raccontare ai bambini perché non abbiamo paura del mondo e crescano ottimisti? È forse un parlare pubblicitario che descrive paesaggi perfetti, quanto impossibili? Che cosa significa ripetere il termine “beati” per otto volte? La sorpresa è che la betitudine evangelica non è un invito a sognare un mondo che non c’è, ma passa attraverso le strade della giustizia, della povertà, della purezza del cuore, del pianto, della sofferenza, della lotta per il bene. Il vangelo ci costringe a verificare la nostra fede non su un Dio che non vediamo e che può essere un orizzonte di inganno, ma sull’uomo. La vera storia dei santi non è l’esaltazione di persone nate riuscite, ma quella di credenti che si sono piegati per cercare il bene dell’altro, il meglio per il prossimo. La domanda della fede non è quella di uomini e donne che si rivolgono a Dio e gli chiedono «dove sei?», ma quella di Dio che si rivolge all’uomo e gli chiede: «Dov’è tuo fratello?» (Gen 4,9). Le parole di Gesù non ci descrivono un Dio imparziale o daltonico, ma che sa soffrire dove soffre chi ama. Le beatitudini ci interpellano circa la nostra responsabilità verso l’altro, verso la vittima, verso l’emarginato, verso chi piange… Questa è l’unica strada laica e profana, cristiana e religiosa, per trovare e vivere la felicità degli altri e la propria.

Il progetto indicato da Gesù, che chiama “beati” quelli cercano la giustizia, l’onestà, la correttezza, la difesa dei diritti umani, sembra un appello strano. Del resto ogni giorno sentiamo una musica diversa: si ripete che è beato il ricco, è felice chi vince, è fortunato chi la fa franca, è tranquillo chi si appoggia ai potenti, è soddisfatto chi fa bella figura, è felice chi pensa solo al proprio granaio… Gesù capovolge questa musica che promette ciò che non può dare e si rivolge a ciascuno dicendo:

Beato sei tu, se ti senti povero e consapevole di non farcela da solo,

Beato sei tu, se il tuo cuore si apre alle lacrime dell’altro,

Beato sei tu, se non cedi all’istinto di dominare i tuoi simili,

Beato sei tu, se chiudi la strada alla violenza e cerchi la giustizia,

Beato sei tu, se al rancore preferisci il perdono,

Beato sei tu, se il tuo cuore è pulito e libero da contraddizioni,

Beato sei tu, se non parli di pace, ma la fai ogni giorno,

Beato sei tu se non prendi paura quando ti insultano, perché sei esagerato nell’amare.

Perché questa è la strada che regala felicità agli altri e a te stesso.

Non possiamo oggi, nella solennità di tutti i santi, non fare memoria insieme a tutti i nostri cari defunti, di tutte quelle persone che il virus di quest’anno ha rubato agli affetti. Talvolta sono bastati pochi momenti di febbre, per poi non rivederli più. Sono i defunti del Covid-19! Abbiamo assistito ad agonie dolorose di chi, impotente cercava invano notizie di un volto caro, anche se molte mani di medici e infermieri, come esperti di umanità, hanno offerto una carezza, si sono tese a stringere quelle di chi moriva. Ci hanno riferito di salme cosparse di disinfettante e chiuse nei sacchi. Abbiamo visto la processione di camion carichi di bare verso inceneritori lontani. Mamme, papà, figli, nonni: persone, restituite in piccole urne ai familiari distrutti dal dolore. Non possiamo dimenticare. Abbiamo toccato con mano la nostra fragilità! E siamo beati non perché fragili, ma perché Dio ci ama.

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30 – A (Mt 22,34-40)

Al tempo di Gesù l’equivoco dei farisei era di vantarsi di aver ricevuto da Dio, rispetto agli altri popoli, un numero maggiore di leggi e di pensare che la coscienza a posto fosse questione di quantità di regole rispettate e di pratiche religiose eseguite. C’era quindi l’esigenza di capire in che cosa consisteva l’essenziale del credente. Per questo con una domanda trabocchetto, carica di malizia, interrogano Gesù dicendo: «Maestro qual è nella Legge il più grande comandamento?».

Al tempo di Gesù l’equivoco dei farisei era di vantarsi di aver ricevuto da Dio, rispetto agli altri popoli, un numero maggiore di leggi e di pensare che la coscienza a posto fosse questione di quantità di regole rispettate e di pratiche religiose eseguite. C’era quindi l’esigenza di capire in che cosa consisteva l’essenziale del credente. Per questo con una domanda trabocchetto, carica di malizia, interrogano Gesù dicendo: «Maestro qual è nella Legge il più grande comandamento?». Gesù risponde mettendo insieme due comandi: l’amore a Dio e l’amore al prossimo. Non possiamo nascondere che la parola “amore” crea oggi un sottile disagio. Ne parlano i genitori, i preti, i letterati, i poeti, i registi, le canzoni romantiche, sentimentali, spezzacuori… Di questa parola, spesso, ci si rimpie la bocca a cuor leggero. La novità del cristianesimo, tuttavia, non è il comando di amare Dio, perché sono molti gli uomini e le donne che nel mondo amano il loro Dio nelle rispettive religioni. La novità del cristianesimo non è neppure il comando di amare il prossimo come se stessi, perché è presente anche nell’Antico Testamento. La novità che introduce il vangelo non è l’amore, ma l’amore come quello di Cristo. Gli uomini amano, ma il cristiano ama alla maniera di Cristo. Non quanto lui ama, ma come Lui ama! Non si tratta di quantità, ma di atteggiamento, di stile.

Gesù ci aiuta a comprendere che l’amore non è un gesto, una azione, un portamento, ma è tutta la persona. Egli è l’Amore che si ferma quando qualcuno lo chiama, quando il peccatore lo cerca, quando la madre piange il figlio. Non è Gesù che comanda l’amore, ma è l’amore che comanda! Quando ami qualcuno sono le sue ferite che ti comandano, sono i suoi bisogni che ti ordinano di rispondere, sono le sue croci che ti chiedono di stargli vicino. È un’illusione e un puro inganno, se pensiamo di essere in buoni rapporti con Dio se ci rapportiamo male con qualcuno, chiunque sia. È un abbaglio pensarci bravi credenti e covare rancore verso il fratello. Legando i due comandi di amare Dio e il prossimo, Gesù ci dice che il primo senza il secondo non sta in piedi e che il secondo trova la sua origine nel primo. Più fedelmente si può tradurre: «Tutta la Legge e i profeti sono appesi a questi comandi». Tutta la vita del cristiano è appesa a questi due comandamenti, come una porta sta sospesa su due cardini, uno più in alto e uno più in basso. La vita cristiana, del resto, come la porta, non gira su un solo cardine. Sfortunatamente troppe esistenze falliscono perché appendono la loro vita a cardini inconsistenti, alle mode, a ciò che non ha spessore, all’apparenza. I due comandi di amore a Dio e al prossimo non sono separati, ma uniti. Non si tratta di riservare uno sguardo domenicale di amore verso Dio e poi uno sguardo settimanale di amore verso il fratello, ma di guardare ogni giorno, insieme a Dio, nella stessa direzione: in direzione del prossimo, delle sue ferite e delle sue speranze.

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29 – A (22,15-21)

Gesù è un personaggio scomodo e i farisei intendono fargli perdere il grande fascino che ha presso la folla: è un pericolo che va eliminato. Tra farisei ed erodiani non corre buon sangue, ma ora sono alleati contro un nemico comune: Gesù. Gli pongono una domanda tranello: «È lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». Quasi a dire: da che parte stai? Se Gesù risponde di no, si dichiara ribelle contro Roma; se sì, si mette contro i poveri già spremuti fino all’osso. Gesù non cade nell’inganno e li invita a mostrare la moneta del tributo.

Gesù è un personaggio scomodo e i farisei intendono fargli perdere il grande fascino che ha presso la folla: è un pericolo che va eliminato. Tra farisei ed erodiani non corre buon sangue, ma ora sono alleati contro un nemico comune: Gesù. Gli pongono una domanda tranello: «È lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». Quasi a dire: da che parte stai? Se Gesù risponde di no, si dichiara ribelle contro Roma; se sì, si mette contro i poveri già spremuti fino all’osso. Gesù non cade nell’inganno e li invita a mostrare la moneta del tributo. Nell’area sacra del tempio nessuna immagine umana poteva entrare, neppure sulle monete. All’ingresso, infatti, c’erano i cambiavalute. Eppure i devoti farisei estraggono dalle tasche la moneta proibita e considerata impura, sulla quale c’è l’immagine dell’imperatore Tiberio. È così che gli attori religiosi sono smascherati. Nella risposta Gesù non parla di pagare, ma di restituire, di dare di ritorno a Cesare quello che è suo e a Dio quello che gli appartiene. La nostra vita è tutta un debito, perché abbiamo avuto di più di ciò che diamo. Abbiamo ricevuto istruzione, acqua, luce, sanità, giustizia, pace, servizi per i più fragili, assistenza e… ora a Cesare restituiamo soltanto qualcosa. A Dio, invece, va restituita la vita, come il dono che gli appartiene: non la religione, ma la vita. L’uomo è cosa di Dio e non è proprietà di nessun Cesare: nessuno può mettere le mani sull’uomo! A Dio è restituito quando lo si onora, lo si serve, lo si difende come un tesoro.

Nella logica di Gesù non si tratta di distinguere la realtà di due poteri: a Cesare il potere materiale delle cose e a Dio il potere spirituale delle persone. Troppo spesso si è utilizzata la risposta di Gesù per stabilire un chiaro confine tra il politico e il religioso, i cui rapporti non sono mai stati facili. A volte sono i politici che cercano l’appoggio religioso per i loro scopi, altre volte è la chiesa a servirsi di loro per i propri interessi. Oggi il potere finanziario-economico-militare pretende l’adorazione delle persone. Cesare, tuttavia, pretende troppo: addirittura si crede Dio! Oggi le tasse più consistenti le pagano la gente comune. Manca una volontà politica che renda giustizia, tassando la sperequazione, i redditi criminali, i privilegi. Non si tratta, come cristiani, di attendere il momento magico di quando arriverà la stagione dell’onestà e della trasparenza, ma di anticiparla con le nostre scelte concrete. Gesù è interrogato sui diritti di Cesare ed egli ricorda i diritti di Dio, sui quali nessuno lo ha interrogato. L’immagine della moneta appartiene a Cesare, ma l’uomo porta in se stesso l’immagine di Dio e quindi a lui appartiene. Il vangelo ci sta dicendo che il vaccino urgente per guarire dalla febbre dell’interesse, dal virus dell’avidità, dal contagio dell’essere sempre insoddisfatti, è di cambiare le regole che mettono al centro il dio mercato, per far tornare al centro il tesoro delle persone.

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28 – A (Mt 22,1-14)

Gesù è ancora in polemica contro le autorità religiose del tempo. Con un’altra parabola egli paragona il regno dei cieli, non a una riunione liturgica in chiesa, ma a una festa di nozze in cui domina la gioia. Il re organizza le nozze del figlio, ma gli invitati non sono interessati. Riesce difficile ammettere che si possa rifiutare l’invito a nozze di un re! Gli invitati sono presi dal loro campo, dai loro affari, dalle liturgie laiche del lavoro e del guadagno. La sala del banchetto rimane vuota, ma il re non si arrende e manda i servi a chiamare “tutti” quelli che si trovano sulle strade e agli incroci. “Tutti” senza distinzione! Un banchetto strano, perché vengono abolite le differenze, i meriti e i buoni si trovano a fianco dei cattivi. Dove oggi quel re manderebbe i suoi servi? Sui marciapiedi dei senzatetto? Alle stazioni ferroviarie che di notte diventano dormitorio per molti? Li manderebbe a Lampedusa?

Gesù è ancora in polemica contro le autorità religiose del tempo. Con un’altra parabola egli paragona il regno dei cieli, non a una riunione liturgica in chiesa, ma a una festa di nozze in cui domina la gioia. Il re organizza le nozze del figlio, ma gli invitati non sono interessati. Riesce difficile ammettere che si possa rifiutare l’invito a nozze di un re! Gli invitati sono presi dal loro campo, dai loro affari, dalle liturgie laiche del lavoro e del guadagno. La sala del banchetto rimane vuota, ma il re non si arrende e manda i servi a chiamare “tutti” quelli che si trovano sulle strade e agli incroci. “Tutti” senza distinzione! Un banchetto strano, perché vengono abolite le differenze, i meriti e i buoni si trovano a fianco dei cattivi. Dove oggi quel re manderebbe i suoi servi? Sui marciapiedi dei senzatetto? Alle stazioni ferroviarie che di notte diventano dormitorio per molti? Li manderebbe a Lampedusa?

Per entrare alla festa il re non non fa distinzioni fra buoni e cattivi, non bada ai meriti, alla razza, alla moralità. Non chiede il certificato di battesimo, l’attestato di buona condotta, perché “tutti” sono invitati alla festa della vita. Quel re non cerca persone perfette, meritevoli, ma peccatori perdonati come noi. Alla parabola delle nozze si aggiunge la scena dell’uomo sorpreso senza abito nuziale, che non è peggiore degli altri, ma è entrato come chi non crede ci sia una festa. La veste non è qualcosa di esteriore, ma significa lasciare il vecchio modo di vivere per assumerne uno nuovo, cioè cambiare vita. Riferita alle autorità giudaiche, la parabola invita al coraggio di osservare le proprie stanchezze, i propri rifiuti. Il rischio è anche il nostro di illuderci che, facendo parte della parrocchia, ci consideriamo gente già salva, sicura di essere sulla strada del regno dei cieli. In realtà il vangelo ci avverte che questa presunzione è molto pericolosa. L’essere chiamati alla festa del re che è Dio, non è il semplice invito alla messa della domenica, ma a vivere secondo lo stile del vangelo. Se l’invito lo si considera solo come uno sbrigare delle tappe da fare, come il battesimo, il catechismo, la cresima, la confessione, la comunione, le regole morali, le formule da recitare, i riti…, allora il banchetto della fede diventa proprio una sorta di dovere sociale. Spesso la fede cristiana è presentata come un compito che ha il sapore delle regole, delle credenze astratte, delle proibizioni. Non è un invito a nozze, un’occasione di gioia, ma un intruppamento che fa sentire in regola. Gli stessi sacramenti diventano un obbligo sociale, una sorta di convenzione, che mette a tacere la fede sotto i colpi di una religione infantile, astratta, senza forza: che non interessa la vita. In questo modo pensiamo Dio come chi sia rimasto fuori dalla sala della vita, quando in realtà è già entrato nella sala del mondo: è qui con noi nei giorni della gioia e in quelli delle lacrime.

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27 – A (Mt 21,33-43)

Ancora un’altra parabola contro le autorità religiose. È la tragica possibilità di rifiutare gli inviti, gli appelli che in mille modi Dio ci fa arrivare. Gesù parla di un proprietario che nel suo terreno pianta una vigna e la circonda di attenzione: la protegge con una siepe, scava una buca per pigiare l’uva, costruisce una torre di guardia per tenere lontani i ladri, l’affida a dei contadini e se ne va lontano. La sua attesa dei frutti, tuttavia, resta delusa. Giunto il tempo del raccolto il padrone manda i suoi servi che vengono bastonati e uccisi. Uccidono anche il suo figlio, pensando di diventare eredi. Tale opposizione non potrà mai essere spiegata come un rifiuto totale del popolo di Israele in blocco, poiché tutti siamo esperti nel rifiutare Dio. Deluso, ma non arreso, il padrone della vigna la affida ad altri.

Ancora un’altra parabola contro le autorità religiose. È la tragica possibilità di rifiutare gli inviti, gli appelli che in mille modi Dio ci fa arrivare. Gesù parla di un proprietario che nel suo terreno pianta una vigna e la circonda di attenzione: la protegge con una siepe, scava una buca per pigiare l’uva, costruisce una torre di guardia per tenere lontani i ladri, l’affida a dei contadini e se ne va lontano. La sua attesa dei frutti, tuttavia, resta delusa. Giunto il tempo del raccolto il padrone manda i suoi servi che vengono bastonati e uccisi. Uccidono anche il suo figlio, pensando di diventare eredi. Tale opposizione non potrà mai essere spiegata come un rifiuto totale del popolo di Israele in blocco, poiché tutti siamo esperti nel rifiutare Dio. Deluso, ma non arreso, il padrone della vigna la affida ad altri.

La nostra vita è una vigna che non abbiamo piantato noi, ma ci è stata affidata con un atto di fiducia, dimostrato dall’assenza del padrone. Noi siamo la speranza e la delusione di Dio. Il suo amore, tuttavia, non si lascia paralizzare dai nostri rifiuti, ma cerca altre strade. Né i figli di Israele, né i discepoli di Gesù, né i credenti di altre religioni, possono pretendere di possedere la vigna, di avere il monopolio della vita. Che cosa significa che la vigna verrà passata ad altri? Sempre di più mi incontro con persone che emarginate da coloro che si ritengono la bocca della verità, sono di fatto autentici figli e figlie di Dio. Sembra che una bella città del regno di Dio si trovi anche fuori dalle mura ecclesiastiche, all’esterno dei recinti religiosi. Impressiona vedere persone non battezzate, dichiarate non credenti, che amano fortemente la propria vita e quella degli altri, la difendono con coraggio e determinazione! Dall’altro fa impressione vedere cristiani battezzati, che ostendano gli oggetti dei vangeli, delle croci, dei rosari e che trattano le persone come oggetti. Gente che passeggia tranquillamente con gli scarponi avanti e indietro sui più elementari diritti umani. Quanti servi dovranno ancora essere sacrificati? È davvero inaccettabile che la sorte di ognuno dipenda dal luogo in cui nasce. Quanto amore Dio ci regala dandoci la vita, circondata dalla siepe, dal torchio, da una torre. Un tempo abbiamo considerato come siepi mamma e papà, scomode figure che sembravano frenare la nostra crescita, mentre a una certa età sono tornate più importanti di prima. Le loro proibizioni le abbiamo sentite come un torchio pressante nella vigna della nostra vita e solo dopo abbiamo compreso che era l’unico modo per produrre frutto. Crescendo ci hanno aiutato a costruire una torre per poter vedere oltre la siepe, in vista di accogliere o respingere le proposte che arrivavano dalla vita. Qualcuno ci regalato la vita e ce l’ha messa tra le mani. Lo ha fatto fidandosi, ma arriva il momento in cui consegnare i frutti. È il rendere conto per che cosa abbiamo vissuto. Chi ha vissuto per se stesso vede Dio come un tiranno della libertà, ma chi ha vissuto amando, non teme di riconsegnare ciò che gli è stato affidato. Chi ha amato non ha troppa paura della morte! Che il vangelo ci insegni a vivere la vita con riconoscenza, consapevoli che la vita non è nostra proprietà, ma soltanto vi è data in comodato d’uso gratuito.

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