Sergio Gaburro Sergio Gaburro

Domenica 14 agosto 2022 - 20 C (Lc 12,49-53)

Le affermazioni di Gesù sono al tempo stesso importanti e inquietanti. L’obiettivo è di indicare al cristiano come vivere nel tempo presente, dentro la complessità della storia. Nelle parole di Gesù emerge tutta la sua passione profetica quando afferma: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra. pensate che io sia venuto a portare la pace? No, vi dico, ma la divisione». Egli dichiara di essere venuto a gettare/spargere/lanciare fuoco sulla terra e di desiderare che questo fuoco divampi.

Le affermazioni di Gesù sono al tempo stesso importanti e inquietanti. L’obiettivo è di indicare al cristiano come vivere nel tempo presente, dentro la complessità della storia. Nelle parole di Gesù emerge tutta la sua passione profetica quando afferma: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra. pensate che io sia venuto a portare la pace? No, vi dico, ma la divisione». Egli dichiara di essere venuto a gettare/spargere/lanciare fuoco sulla terra e di desiderare che questo fuoco divampi. Gesù si descrive come un “lanciafiamme” dentro la sua storia. Le donne e i bambini erano senza diritti; gli schiavi alla mercé dei loro padroni; i lebbrosi, i ciechi, i poveri trattati con disprezzo. E lui si mette dalla loro parte, li chiama alla sua tavola, fa del bambino il modello da cui imparare, invia le donne ad annunciare la Pasqua. Venendo Gesù capovolge le prospettive umane, spegne il sogno di chi vuole seguirlo  camminando in discesa o di chi dorme sonni tranquilli. Egli è il disturbatore della falsa pace.

Chi accetta di stare vicino a Gesù, rimane vicino al fuoco. Al suo seguito Egli vuole discepoli riscaldati dal Vangelo, disturbati nella loro quiete, infiammati dalla passione per la giustizia. La sua predicazione non mette in pace la coscienza, ma la risveglia dalla falsa pace, dalla pace apparente. Se il fuoco di cui parla Gesù è la passione dell’amore, i cristiani non possono che essere portatori e diffusori dello stesso fuoco. Sono mandati a rompere la falsa armonia dentro la famiglia, l’illusoria serenità che nasconde egoismi e silenzi, l’ipocrita retorica della pace, la non sincera intesa tra gruppi partitici, la falsa pace dentro una chiesa che rischia di dormire sonni tranquilli anche in un mare in tempesta. Gesù non vuole cristiani e pastori pompieri, che distribuiscono tranquillanti e sonniferi, ma cristiani “lanciafiamme”, capaci di bruciare le contraddizioni, di incendiare le incoerenze, di incenerire le maschere e di accendere il fuoco della passione per la giustizia, per l’onestà, per il rispetto della vita. Gesù, con un linguaggio profetico, ci mette in guardia dalla falsa pace di chi si considera cittadino e cristiano onesto, che dice: “non faccio del male a nessuno”, perché la vera pace comporta la passione scomoda di fare il bene di qualcuno.

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Domenica 7 agosto 2022 - 19 C (Lc 12,32-48)

Per tre volte nel vangelo si ripete: siate pronti, fatevi trovare attivi, tenetevi pronti. A che cosa? Alla gioia dell’incontro. Non di un Dio minaccioso, che fa paura a causa dei nostri moralismi violenti, ma di Colui che si fa servo dei suoi servi, che «li fa mettere a tavola e passa a servirli». È il capovolgimento dell’idea di un Dio padrone che si mette a fare il servo e si pone a servizio della nostra vita! Il padrone della parabola è perfino arrogante, perché tornando a casa da una festa, in piena notte, pretende che i servi, dopo una giornata di lavoro, siano ancora all’opera.

Domenica 7 agosto 2022 - 19 C (Lc 12,32-48)

Per tre volte nel vangelo si ripete: siate pronti, fatevi trovare attivi, tenetevi pronti. A che cosa? Alla gioia dell’incontro. Non di un Dio minaccioso, che fa paura a causa dei nostri moralismi violenti, ma di Colui che si fa servo dei suoi servi, che «li fa mettere a tavola e passa a servirli». È il capovolgimento dell’idea di un Dio padrone che si mette a fare il servo e si pone a servizio della nostra vita! Il padrone della parabola è perfino arrogante, perché tornando a casa da una festa, in piena notte, pretende che i servi, dopo una giornata di lavoro, siano ancora all’opera. Ed ecco che, realmente, rincasando a tarda ora, all’improvviso li trova indaffarati e attivi. Chissà? Forse quei servi si sarebbero accontentati di un complimento, di una mancia. Ma li sorprende la reazione del padrone che, vedendoli ancora attivi, si commuove: davanti alla loro stanchezza il suo cuore risuona, nel vedere l’impegno si impressiona, di fronte alla loro resistenza si intenerisce. Sfiniti, ma non arresi, con sorpresa grande osservano il padrone che li fa accomodare a tavola, tira su le maniche e fa il cameriere. Un Dio così esce dall’immaginazione umana: non è fatto da mani o da mente d’uomo. Conosce la nostra fatica, sa bene quanto costa credere e sperare nonostante tutto, soprattutto quando la notte sembra non finire mai.

Cristo invita a tenerci pronti, svegli, come i servi di un padrone esigente che non ammette perditempo, pigrizie e sonnolenze. Si tratta di rimanere attenti, pronti, ma non angosciati; attivi, ma non agitati; vivi, ma non ansiosi. Siamo chiamati a rimanere svegli anche “nel cuore della notte”, nell’apparente pieno trionfo della corruzione, quando la luce di un nuovo giorno sembra spegnersi. Cristo ci dice: «Non temete piccolo gregge!». Ai nostri giorni nella chiesa diminuisce il numero di coloro che chiedono il battesimo, che si sposano in chiesa, che chiedono i funerali religiosi. L’influenza pubblica dei pronunciamenti della Chiesa è scarsa. Ci sono i cristiani della linfa, del tronco, della corteccia e quelli che, come muschio, stanno attaccati solo esteriormente all’albero. Non sono pochi, tuttavia, coloro che cercano una risposta alle loro domande di senso fuori dal cristianesimo. Non si tratta di entrare in ansia, perché Gesù stesso ci chiama “piccolo gregge”, “piccolo seme”, “pugno di lievito”. La nostra chiamata è di chinarci con paziente disinteresse e generosità sulla nostra società costitutiva del cristianesimo e sempre anche un po’ meritata dai cristiani, accettando l’umile missione e la poca rilevanza del “piccolo gregge”. Siamo un gregge di piccoli uomini, piccole donne che, anche quando scende la notte, continuano a lavorare, a soffrire, a sognare un nuovo giorno, consapevoli di essere al servizio dell’unico Signore che si è fatto nostro servitore.    

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Domenica 31 luglio 2022 - 18 C (12,13-21)

Chissà quanti di noi hanno pensato di chiedere a Gesù come quel tale del vangelo: «Maestro, dì a mio fratello che divida con me l’eredità». È questo uno dei motivi molto frequenti per cui si litiga nelle nostre famiglie convinti, ieri come oggi, che nei beni troviamo la felicità. Al tempo di Gesù la Legge stabiliva che alla morte, l’eredità spettasse al figlio maschio primogenito, evitando così che il patrimonio venisse diviso.

Chissà quanti di noi hanno pensato di chiedere a Gesù come quel tale del vangelo: «Maestro, dì a mio fratello  che divida con me l’eredità». È questo uno dei motivi molto frequenti per cui si litiga nelle nostre famiglie convinti, ieri come oggi, che nei beni troviamo la felicità. Al tempo di Gesù la Legge stabiliva che alla morte, l’eredità spettasse al figlio maschio primogenito, evitando così che il patrimonio venisse diviso. Interpellato Gesù si rifiuta di fare da arbitro tra i due fratelli in contesa, non suggerisce soluzioni già pronte, ma con la sua Parola aiuta a riflettere termini più ampi. Gesù legge in quella richiesta non una voglia di giustizia, ma un desiderio di possesso, tipico di chi non comprende che «la sua vita non dipende dai beni che possiede». Con una parabola parla di un uomo ricco che dopo un raccolto abbondante si interroga: «Che cosa farò? Demolirò i miei granai e ne ricostruirò di più grandi». L’uomo della parabola non fa del male, non è cattivo, non è un mafioso, ma Gesù lo chiama “stolto”. Lo chiama “matto” perché vive solo per sé, parla a se stesso, fa progetti per se stesso e si  congratula con se stesso! Egli non è più libero, non è uno che possiede, ma che è posseduto dalle cose.

Questo uomo ricco della parabola può interpretarci nel momento in cui ci troviamo ossessionati da ciò che è “mio”: il mio raccolto, i miei granai, i miei beni, la mia anima. Oggi potremmo dire: il mio profitto, i miei investimenti, i miei interessi, le mie proprietà, il mio tornaconto. È la stregoneria del “mio”! Gesù ci sta dicendo che non di solo pane vive l’uomo. Se fosse vero che il solo benessere crea felicità, dovremmo essere le popolazioni più felici del mondo. Purtroppo la nostra esperienza dà ragione al vangelo, perché di solo benessere, di sole cose, l’uomo diventa triste, muore. L’uomo di ieri e di oggi che vivono solo del benessere, è solo, se non isolato, in compagnia di cose che non possono regalare un sentimento, una carezza, un saluto. Vicino all’uomo ricco della parabola non c’è nessun altro: nessun nome nessun volto, nessuno nella casa, nessuno nel cuore. Vuoi trovare la felicità? – dice Gesù – non cerarla al mercato delle cose, ma nelle relazioni buone con le persone. E San Basilio afferma: vuoi cercare i veri granai: li trovi nelle case dei poveri! Noi, infatti, siamo ricchi solo di ciò che abbiamo dato agli altri.

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Domenica 24 luglio 2022 - 17 C (Lc 11,1-13)

Vedendo Gesù che si apparta a pregare, i discepoli gli chiedono: «Signore, insegnaci a pregare». Dicendo “insegnaci”, riconoscono di non esserne capaci. Non dicono: insegnaci delle preghiere, delle formule o dei riti, ma il cuore della preghiera. Essi chiedono come stare davanti a Dio, come portare la nostra zolla di terra secca alla sorgente, come arrivare con la nostra sete alla fontana. Per Gesù pregare è entrare in un legame con un Dio-Padre. Quando pregate dite «Padre».

Vedendo Gesù che si apparta a pregare, i discepoli gli chiedono: «Signore, insegnaci a pregare». Dicendo “insegnaci”, riconoscono di non esserne capaci. Non dicono: insegnaci delle preghiere, delle formule o dei riti, ma il cuore della preghiera. Essi chiedono come stare davanti a Dio, come portare la nostra zolla di terra secca alla sorgente, come arrivare con la nostra sete alla fontana. Per Gesù pregare è entrare in un legame con un Dio-Padre. Quando pregate dite «Padre». Non è un Dio immobile e lontano, ma un Padre di cui tu sei figlio e quindi un tuo parente stretto. E aggiunge: «sia santificato il tuo nome»: non dice di non bestemmiarlo, ma di imparare a riconoscere la sua grandezza e di non usare il suo nome per fini politici, per scopi economici, per interessi clericali. La preghiera è supplica di chi dice «Venga il tuo regno», non il nostro. È il domandare il «pane quotidiano», non il pane da accumulare nei magazzini delle banche o delle borse, ma quello che fa vivere ogni giorno. Inoltre si invoca da Dio il «perdono per i nostri peccati», perché ci liberi da ogni rancore che appesantisce il cuore. La preghiera poi conclude dicendo «non abbandonarci alla tentazione», cioè non lasciarci soli a lottare contro il male, tiraci fuori dalla paura, da ogni ferita, da ogni caduta. Con le prima parabola Gesù invita a rivolgersi a Dio come a un amico e nella seconda come Padre.

Purtroppo la preghiera gode di cattiva fama, perché sembra un esercizio inutile, una perdita di tempo di chi si mette in dialogo con il silenzio. E quando preghiamo non raramente succede di trattare Dio come un potente da convincere, un mago da persuadere, così che sganci qualche grazia desiderata. Del resto abbiamo alle spalle secoli di inviti alla devozione, alla recita di formule che nascono bellissime e muoiono distratte, di rosari biascicati pensando ad altro. Spesso si tratta di una preghiera pensata come una sorta di sfinimento nostro e di Dio, sinonimo di recita, di cantilena, di insistenza destinata a convincere Dio delle nostre buone intenzioni: ti prego fammi il favore che ti chiedo! Quante persone, che si ritengono cristiani doc, pensano: ho chiesto a Dio nella preghiera, ma non mi ha esaudito! Poi a distanza di anni si rendono conto che hanno ottenuto tutto ciò di cui avevano bisogno e che spesso, non era ciò che chiedevano. Forse la preghiera non è ottenere ciò che vogliamo, ma capire ciò che non è necessario ed essere riconoscenti per i doni che riceviamo a nostra insaputa. Dio esaudisce sempre, non l nostre richieste, ma le sue promesse!

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Domenica 17 luglio 2022 16 - C (Lc 10,38-42)

Cinque chilometri prima di arrivare a Gerusalemme Gesù si ferma nel villaggio di Betania ed è accolto nella casa di due sorelle: Marta e Maria. Nel suo essere in cammino aveva bisogno di riferimenti di amici e simpatizzanti sui quali contare, per far riposare la sua stanchezza e per scambiare una parola. E in Israele l’ospitalità era sacra. Gesù sente il bisogno della sosta in una casa per parlare con qualcuno, sfogarsi, dare voce ai propri stati d’animo. Gesù si mostra estremamene umano, ha bisogno di amici, di qualcuno con il quale scambiare una parola.

Cinque chilometri prima di arrivare a Gerusalemme Gesù si ferma nel villaggio di Betania ed è accolto nella casa di due sorelle: Marta e Maria. Nel suo essere in cammino aveva bisogno di riferimenti di amici e simpatizzanti sui quali contare, per far riposare la sua stanchezza e per scambiare una parola. E in Israele l’ospitalità era sacra. Gesù sente il bisogno della sosta in una casa per parlare con qualcuno, sfogarsi, dare voce ai propri stati d’animo. Gesù si mostra estremamene umano, ha bisogno di amici, di qualcuno con il quale scambiare una parola. Due sono i comportamenti assunti dalle sorelle che lo ospitano. Marta, è felice di avere un ospite importante e preoccupata di non fare brutta figura, si agita per non fargli mancare nulla. Maria, invece, sceglie di sedersi per ascoltarlo, come una discepola consapevole, tanto da dire a Gesù: «non vedi che mi ha lasciata sola a servire? Dille che mi aiuti». Ma Gesù risponde che «Maria ha scelto la parte buona, che non le sarà tolta». Non oppone l’ascolto al servizio, ma rimprovera a Marta l’assenza di ascolto, un fare da cui è assente il cuore. Il nazareno tratta con tenerezza Marta e difende la scelta di Maria senza esitazione. Nell’incontro con Marta e Maria Gesù non si limita a parole generiche di tipo patriarcale sulla “dignità della donna” e sul “genio femminile”, ma invita ad imparare da due donne, da persone emarginate nella comunità sociale e religiosa. E ci dice: far da mangiare è come dare vita all’altro e ascoltare è accorgersi della vita di qualcuno.

Gesù non contrappone, come spesso si è detto, vita contemplativa” e “vita attiva”, come se pregare fosse meglio che servire. Non contraddice il servizio, ma l’affanno, l’agitarsi. L’opposizione è tra ascolto e non ascolto. Oggi siamo tutti di fretta e sotto la spinta del progresso corriamo a una velocità frenetica, da vertigine, volendo rincorrere il mondo e metterci al passo con tutte le mode. Ma correre non vuol dire crescere! Gesù ci dice: chi vive agitato non si accorge dell’altra persona, fa cose ma evita ciò che è davvero necessario. Sono molti gli adulti che vivono in affanno per non far mancare nulla ai figli e, poi, non avendo tempo per ascoltarli, li affidano all’ascolto a pagamento di uno psicologo. Gesù non critica il servizio, ma l’affanno, non il cuore generoso di Marta, ma l’agitazione. Per sentirsi stimati dagli altri rischiamo di non cogliere il “troppo” che è sempre in agguato: troppe attività, troppe telefonate, troppe scadenze, troppa carne al fuoco. Anche le parrocchie soffrono di troppe attività, troppe messe, troppa ansia nel rincorrere le cose di cui non c’è bisogno, quando dovrebbero essere luoghi nei quali si curano innanzitutto le relazioni. Ci sono tratti della persona che si nascondono nelle pieghe degli occhi, nelle pieghe degli stati d’animo, nelle pieghe del tono della voce, nelle pieghe del silenzio. Ascoltare è sintonizzarsi con la persona, per poi servirla. È inutile offrire un piatto di maccheroni al dente a una persona che non ho ascoltato, mentre mi stava dicendo che porta la dentiera! L’ascolto decide del servizio.

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Domenica 10 luglio 2022 -15 - C (Lc 10,25-37)

15 – C (Lc 10,25-37)

Di ritorno dalla predicazione pieni di entusiasmo, i discepoli stanno parlando con Gesù quando interviene un dottore della Legge, l’uomo delle regole che sa con esattezza che cosa fare e non fare, e domanda: «Maestro che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». In altre parole: che cosa devo fare per essere felice? E Gesù risponde con una parabola che inizia dicendo: per caso un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico.

15 – C (Lc 10,25-37)

Di ritorno dalla predicazione pieni di entusiasmo, i discepoli stanno parlando con Gesù quando interviene un dottore della Legge, l’uomo delle regole che sa con esattezza che cosa fare e non fare, e domanda: «Maestro che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». In altre parole: che cosa devo fare per essere felice? E Gesù risponde con una parabola che inizia dicendo: per caso un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico. Parla di un uomo: non dice il nome, ma descrive il suo volto colpito, ferito, sanguinante. I primi due a passare sono un prete e un levita: il primo è un uomo di Dio e il secondo una figura con compiti precisi al tempio. Entrambi vedono l’uomo con la faccia a terra e passano oltre, dimenticando che oltre la carne e il dolore dell’uomo non c’è Dio, oltre l’uomo ferito non trovano il tempio e nemmeno la liturgia solenne, ma solo l’illusione di amare Dio. Il terzo che passa, invece, è un samaritano, un eretico. Un nemico, una persona senza religione che gli si fa vicino, gli fascia le ferite, lo carica sulla sua cavalcatura e lo porta in una locanda. A fermarlo non è la religione, ma la compassione. Poi la domanda di Gesù: «Chi dei tre è veramente prossimo?». Alla domanda il dottore della Legge risponde con un’altra: «Chi è il mio prossimo?», cioè Chi devo amare? È una domanda pericolosa perché per un ebreo il prossimo non poteva che essere un altro ebreo.

Quella dell’esperto della Legge è la nostra domanda: come essere pienamente persone umane, persone di Dio? Noi diremmo: come devo comportarmi per essere un buon cristiano? Con questa parabola Gesù mette il dito nella piaga. Dobbiamo riconoscerlo: siamo ciechi nel vedere le ferite del vicino, analfabeti nell’interpretare il dolore di chi è sulla nostra strada, siamo di corsa per poter fermarci nella nostra società che chiamiamo sviluppata. Ci siamo abituati a voltare lo sguardo, a passare accanto, a ignorare le situazioni di bisogno, finché queste non ci toccano da vicino. Forse anche noi come il prete e il levita abbiamo pensato: perché Dio non interviene a salvare quest’uomo? Siamo tutti a rischio, preti e laici, di toccare le cose di Dio nel tempio e di non toccare la creatura ferita di Dio sulla strada. Diversamente dal prete e dal levita del vangelo, che nel rispetto delle regole religiose non si fermano per non contaminarsi, lo straniero che diciamo “senza Dio”, preferisce ascoltare la regola della compassione del cuore. Che lezione per noi che viviamo di fretta! Tra i gesti che pone, il samaritano dà soprattutto il suo tempo. Sceglie di sporcarsi le mani con il sangue di chi non conosce, forse pensando che avrebbe potuto esserci lui al suo posto. Se le persone religiose stanno a distanza, chi non è religioso non ha paura di toccare l’uomo ferito. Gesù ci sta dicendo: il prossimo non si sceglie, ma prossimo si diventa!Parla di un uomo: non dice il nome, ma descrive il suo volto colpito, ferito, sanguinante. I primi due a passare sono un prete e un levita: il primo è un uomo di Dio e il secondo una figura con compiti precisi al tempio. Entrambi vedono l’uomo con la faccia a terra e passano oltre, dimenticando che oltre la carne e il dolore dell’uomo non c’è Dio, oltre l’uomo ferito non trovano il tempio e nemmeno la liturgia solenne, ma solo l’illusione di amare Dio. Il terzo che passa, invece, è un samaritano, un eretico. Un nemico, una persona senza religione che gli si fa vicino, gli fascia le ferite, lo carica sulla sua cavalcatura e lo porta in una locanda. A fermarlo non è la religione, ma la compassione. Poi la domanda di Gesù: «Chi dei tre è veramente prossimo?». Alla domanda il dottore della Legge risponde con un’altra: «Chi è il mio prossimo?», cioè Chi devo amare? È una domanda pericolosa perché per un ebreo il prossimo non poteva che essere un altro ebreo.

Quella dell’esperto della Legge è la nostra domanda: come essere pienamente persone umane, persone di Dio? Noi diremmo: come devo comportarmi per essere un buon cristiano? Con questa parabola Gesù mette il dito nella piaga. Dobbiamo riconoscerlo: siamo ciechi nel vedere le ferite del vicino, analfabeti nell’interpretare il dolore di chi è sulla nostra strada, siamo di corsa per poter fermarci nella nostra società che chiamiamo sviluppata. Ci siamo abituati a voltare lo sguardo, a passare accanto, a ignorare le situazioni di bisogno, finché queste non ci toccano da vicino. Forse anche noi come il prete e il levita abbiamo pensato: perché Dio non interviene a salvare quest’uomo? Siamo tutti a rischio, preti e laici, di toccare le cose di Dio nel tempio e di non toccare la creatura ferita di Dio sulla strada. Diversamente dal prete e dal levita del vangelo, che nel rispetto delle regole religiose non si fermano per non contaminarsi, lo straniero che diciamo “senza Dio”, preferisce ascoltare la regola della compassione del cuore. Che lezione per noi che viviamo di fretta! Tra i gesti che pone, il samaritano dà soprattutto il suo tempo. Sceglie di sporcarsi le mani con il sangue di chi non conosce, forse pensando che avrebbe potuto esserci lui al suo posto. Se le persone religiose stanno a distanza, chi non è religioso non ha paura di toccare l’uomo ferito. Gesù ci sta dicendo: il prossimo non si sceglie, ma prossimo si diventa!

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Domenica 3 luglio 2022 - 14 C (Lc 10,1-12.17-20)

Nel vangelo la mossa di Gesù appare come una pazzia: inviare i dodici discepoli come agnelli in mezzo ai lupi. Non sembra una scelta propria saggia, né una prospettiva invitante! Per giunta: senza borsa, senza sacca, senza sandali. Quando si parte per un viaggio di solito si controlla che non manchi nulla. Sorprende invece che Gesù non fa una lista di cose da portare con sé, ma elenca ciò che i discepoli non devono portare con sé.

Nel vangelo la mossa di Gesù appare come una pazzia: inviare i dodici discepoli come agnelli in mezzo ai lupi. Non sembra una scelta propria saggia, né una prospettiva invitante! Per giunta: senza borsa, senza sacca, senza sandali. Quando si parte per un viaggio di solito si controlla che non manchi nulla. Sorprende invece che Gesù non fa una lista di cose da portare con sé, ma elenca ciò che i discepoli non devono portare con sé. A suo avviso non si va per fare propaganda di una nuova dottrina, ma per testimoniare una vita essenziale, vicina alla gente, immersa nella vita dei poveri. Coloro che sono mandati devono fare corpo con gli ultimi, con chi non ha un conto in banca, con chi cammina scalzo. Quando nell’inviare i suoi Gesù dice: «La messe è molta, gli operai sono pochi. Pregate dunque…», spesso ci siamo limitati a pregare per le vocazioni dei preti, dei religiosi, di consacrati. In realtà Gesù sta dicendo che c’è tanto bene da raccogliere, basta riconoscerlo. E tutti possono vedere il bene che cresce. Chi va non deve portare cose, ma «la pace in casa», cioè tra le pareti, le finestre, la tavola, i volti.

In altre parole Gesù manda ogni cristiano a portare il Vangelo e quindi lo espone anche al rifiuto. Se la parrocchia organizza cene, sagre e feste troverà un grande consenso, ma se porta il Vangelo nella sua radicalità deve attendersi anche l’opposizione. Il rischio è di stare in una Chiesa ricca di mezzi, di strutture, ma povera di Vangelo, molto attrezzata e spesso vuota di persone. Come chiesa lungo la storia abbiamo accumulato pesantezze, copiato i modelli delle carrozze imperiali, vestito i panni dei sovrani. Sappiamo come farci amici tanti poteri, ne abbiamo copiati i simboli, i rituali, le insegne, le liturgie… Altro che “andare senza borsa”! Gesù nell’inviare i discepoli e noi non ci suggerisce di migliorare la macchina organizzativa parrocchiale, ma di andare per la strade, di camminare con la gente, di osservare i volti, di ascoltare il cuore della gente. Non ci dice di fermarci alle processioni, ai raduni di massa, alla preghiera per le vocazioni perché ci vogliono più preti, ma di riconoscere la messe che è già pronta, basta individuarla e raccoglierla. I nostri occhi vedendo prima la zizzania rischiano non riconoscere il frutto, il bene, il raccolto. Gesù ci manda a vivere relazioni buone, fatte di pace, di rispetto, di mani tese ad aiutare. Decisive non sono le cose, i mezzi, ma se abbiamo il Vangelo dentro le nostre persone porteranno coraggio, fiducia, speranza: una sorta di sana alimentazione di cui c’è bisogno oggi come il pane che si mangia.

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Domenica 26 giugno 2022 - 13 C (Lc 9,51-62)

Gesù è in viaggio verso Gerusalemme: verso la morte in croce. È un viaggio in salita, in tutti i sensi! Si dice che il volto di Gesù «si fece duro», nel senso che raccolse le sue forze superando ogni incertezza per affrontare il potere politico, la casta sacerdotale e la gente di Gerusalemme. Il percorso più breve tra Galilea e Gerusalemme passa per la Samaria, ma Giudei e Samaritani non corre buon sangue.

Gesù è in viaggio verso Gerusalemme: verso la morte in croce. È un viaggio in salita, in tutti i sensi! Si dice che il volto di Gesù «si fece duro», nel senso che raccolse le sue forze superando ogni incertezza per affrontare il potere politico, la casta sacerdotale e la gente di Gerusalemme. Il percorso più breve tra Galilea e Gerusalemme passa per la Samaria, ma Giudei e Samaritani non corre buon sangue. Gesù manda avanti i discepoli per preparare il luogo dove trascorrere la notte e trovando il netto rifiuto dicono al Maestro: «Vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Gesù li guarda, li rimprovera e riprende il cammino. Egli è incompreso non solo dai samaritani, ma anche dai suoi discepoli. Sulla strada si registrano tre slanci di entusiasmo per seguire Gesù, ma per nessuno è previsto lo sconto. Al primo che gli dice «Ti seguirò dovunque tu vada», egli risponde: dimentica la tua tana, il tuo rifugio, la tua sicurezza. Al secondo che è disposto a seguirlo dopo aver seppellito il padre, dice: «Lascia che i morti seppelliscano i morti». Non contesta gli affetti, ma quegli affetti che legano a memorie morte. Al terzo che è pronto a seguirlo solo dopo aver salutato quelli di casa, risponde: che una volta posto la mano all’aratro non si guarda indietro, con nostalgie che rallentano il passo. 

Gesù ci sta dicendo che chi vuole vivere tranquillo e in pace nel suo nido non può essere suo discepolo. Non si può pensare di seguirlo portando avanti una vita comoda, chiusa nella propria “tana”, in difesa rispetto al mondo che non la pensa come lui. Gesù contesta ogni tentazione di ammorbidire la scelta di seguirlo, pensando sia una passeggiata. È la tentazione di ridurre la fede cristiana a una sorta di perbenismo di facciata, di accomodarla in un’ipocrisia domenicale e di addomesticarla in una vita funzionale al “disordine stabilito”. Troppe volte la fede viene ridotta a una serie di “cerotti sacri”, di “francobolli religiosi”, di “bende devozionali”. Accade che i fiumi di parole e di denunce diventano pura retorica, i poveri ci servono per sentirci benefattori, la messa domenica per metterci la coscienza in pace. È vero che Gesù ne scelse dodici perché stessero con Lui, ma dopo averlo frequentato per tre anni, hanno mostrato di essere uguali a tutti gli altri. Forse tra questi ci siamo anche noi, come Giacomo e Giovanni, che di fronte a chi non riconosce il Maestro Gesù, ripetono la stessa logica dei nemici samaritani: farla pagare, occhio per occhio, bruciamoli! Per Gesù la persona viene prima della fede e l’annuncio cristiano va sempre proposto e mai imposto. Il cristiano va contro corrente, sperimenta il rifiuto, prova la persecuzione e come diceva Leonardo Sciascia «accarezza spesso il mondo in contropelo», mai omologato al pensiero dominante.

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Domenica 19 giugno 2022 - Corpo e sangue di  Cristo - C (Lc 9,11b-17)

Gesù volendo far riposare i suoi discepoli che ha mandato in missione,  si ritira in disparte, ma quando arriva trova che la folla l’ha preceduto, perché ancora lo cerca per ascoltare la sua parola. È sera e i discepoli suggeriscono al maestro di salutare la gente perché si cerchi da mangiare, ma Gesù li spiazza dicendo: «Voi stessi date loro da mangiare». Il senso è duplice: anzitutto vuol dire sfamate voi la gente e inoltre l’unico modo per sfamare è dare se stessi.

Domenica 19 giugno 2022 - Corpo e sangue di  Cristo - C (Lc 9,11b-17)

Gesù volendo far riposare i suoi discepoli che ha mandato in missione,  si ritira in disparte, ma quando arriva trova che la folla l’ha preceduto, perché ancora lo cerca per ascoltare la sua parola. È sera e i discepoli suggeriscono al maestro di salutare la gente perché si cerchi da mangiare, ma Gesù li spiazza dicendo: «Voi stessi date loro da mangiare». Il senso è duplice: anzitutto vuol dire sfamate voi la gente e inoltre l’unico modo per sfamare è dare se stessi. Gesù prende i cinque pani e i due pesci a disposizione, li spezza, li fa distribuire ai discepoli e tutti vengono saziati, avanzando anche dodici ceste. Gesù è attento ai bisogni anche del corpo: è ben lontano dalla nostre false distinzioni tra corpo e anima, perché per lui esiste solo tutta la persona. Ciò che riempie non è la quantità, ma il condividere, lo spezzare, il fare parte. L’uomo non è il proprietario di questo pane, ma soltanto il servo chiamato a distribuire. Al tempo di Gesù nel pasto giudaico, prima di un rito importante, la religione insegnava che l’uomo doveva purificarsi per incontrare Dio, mentre il vangelo sta dicendo che chi accoglie il Signore è purificato. 

Il vangelo contrappone due visioni opposte davanti alla folla: da un lato i discepoli suggeriscono a Gesù di liquidare la gente perché si cerchi da mangiare, dall’altro il Maestro li interpella e li impegna personalmente. Quando sono fastidiosi questi discepoli, questi uomini di chiesa che vogliono dettare le condizioni a Gesù, caricare pesi sulle spalle degli altri e non sulle proprie. Ancora una volta Gesù ha a che fare con gente che pensa solo per se stessa: a loro bastava salvare solo se stessi. Non hanno capito che ciascuno si salva se si salvano gli altri. Un padre russo diceva: in paradiso ci si va insieme, all’inferno da soli. Il Maestro educa i suoi discepoli ai bisogni degli altri: «Voi stessi date loro da mangiare». Date le vostre persone, il vostro tempo, le vostre energie, le vostre ore di sonno. Cosa fa una mamma se non questo? Quante ore di sonno toglie a sé per darle ai figli? Si dimentica di sé e fa vivere il figlio. Ma in fondo non salva anche se stessa? Salvando i figli la mamma salva se stessa. Il corpo del Signore non dobbiamo pensarlo in termini sacrali. Prima di farsi ostia, Dio si è fatto carne, carne in tutti. L’indifferenza davanti a un essere umano è profanazione dello stesso corpo di Cristo. I veri tabernacoli sono allora i corpi martoriati dei poveri, le carni indebolite dei profughi, degli esclusi, degli allontanati e degli abbandonati. Adorare e venerare un’ostia consacrata e poi calpestarla, denigrarla e rigettarla nel fratello è un falso cristianesimo. Noi siamo ricchi solo di ciò che doniamo.

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Domenica 12 giugno 2022 - Trinità C (Gv 16,12-15)

Trinità: un solo Dio in tre persone. Un dogma della chiesa che appare uno strano problema matematico: 1+1+1 non fa 1! Dio non è una speculazione filosofica. Il termine “Trinità” non c’è nella Bibbia, ma si racconta la presenza e l’azione del Padre, del Figlio e dello Spirito. Il linguaggio trinitario è simbolico e interpreta l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio e quindi racconta di un legame d’amore.

Trinità: un solo Dio in tre persone. Un dogma della chiesa che appare uno strano problema matematico: 1+1+1 non fa 1! Dio non è una speculazione filosofica. Il termine “Trinità” non c’è nella Bibbia, ma si racconta la presenza e l’azione del Padre, del Figlio e dello Spirito. Il linguaggio trinitario è simbolico e interpreta l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio e quindi racconta di un legame d’amore. In principio a tutto c’è una relazione, qualcosa che ci lega a qualcuno. Il Dio cristiano ci sta dicendo che l’uomo è in se stesso relazione. In questo modo capiamo perché la solitudine ci pesa tanto e ci fa paura, perché è contro la nostra natura. Allora comprendiamo perché quando siamo con chi ci vuole bene, stiamo così bene: si sentiamo realizzati, pieni di senso, perché realizziamo ciò che siamo: persone in contatto con l’altro. Nella creazione Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2,18). La solitudine sulla terra è il primo male e sembra che anche in cielo Dio non possa stare solo. La Trinità afferma la vittoria essenziale sulla solitudine. 

Come le persone della Trinità sono uguali e distinte, così nella nostra famiglia viviamo tra persone della stessa razza umana, eppure distinte tra loro. Siamo persone uguali in dignità eppure persone distinte, non identiche. Ogni uomo ha il suo volto e la sua storia, le sue speranze e le sue fatiche, i suoi ideali e le sue paure. Dio ci conosce per nome e non per sigla. La Chiesa è fatta di Persone: non di cifre, non di codici fiscali, non di green pass. Quando viviamo insieme volendoci bene e rispettando la diversità, diciamo che la famiglia è unita. La Trinità ci insegna che nell’amore ciò che conta è essere uniti rispettando la diversità di ciascuno, senza soffocarci, senza uniformarci. Dio è così: Due persone che si amano a tal punto da generare vita! Nel primo dei capolavori dello scrittore polacco Kieslowski, ispirati ai Dieci Comandamenti, il bambino protagonista mentre gioca al computer domanda alla zia: «Com’è Dio». La zia lo guarda in silenzio, gli si avvicina, lo abbraccia, gli bacia i capelli e stringendolo a sé gli dice: «Come ti senti ora?». Il bambino alza gli occhi e risponde: «Bene, mi sento bene». E la zia: «Ecco Dio è così». La povertà delle nostre relazioni farà silenzio su Dio, mentre la qualità delle nostre relazioni ci dirà chi è Dio.

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Domenica 5 giugno 2022 - Pentecoste (Gv 14,15-16.23-26)

Pentecoste è una parola greca che significa cinquantesimo giorno per dire che sono terminati i 50 giorni dopo la Pasqua. Si apre così il tempo della Chiesa: ora tocca a noi. Gesù risorto andandosene dice ai suoi: «Se mi amate osserverete i miei comandamenti». Non dice: osservando i miei comandamenti potete dire di amarmi, ma proprio perché mi volete bene li osservate. Prima si ama una persona e poi si osserva ciò che domanda.

Pentecoste è una parola greca che significa cinquantesimo giorno per dire che sono terminati i 50 giorni dopo la Pasqua. Si apre così il tempo della Chiesa: ora tocca a noi. Gesù andandosene dice ai suoi: «Se mi amate osserverete i miei comandamenti». Non dice: osservando i miei comandamenti potete dire di amarmi, ma proprio perché mi volete bene li osservate. Prima si ama una persona e poi si osserva ciò che domanda. Inoltre Gesù ci manda lo Spirito che chiama Paràclito cioè Colui che sta accanto a noi per insegnarci ogni cosa e ricordarci la parola del Maestro. Lo Spirito Santo è un altro nome per dire la presenza di Dio, è l’amore di Dio. E l’Amore non si può definire, ma sperimentare. Non ci sono parole che spieghino l’amore, ma ci sono opportunità nella vita in cui sperimentarlo, momenti in cui toccare con mano la sua forza, situazioni in cui riconoscere che ci è vicino e ci sostiene. Lo Spirito non si lascia vedere con gli occhi, ma ci tiene a essere riconosciuto per quello che fa nella vita delle persone.

Questo Spirito è rappresentato dal racconto degli Atti degli apostoli come un vento impetuoso che sconvolge, apre porte e finestre, scombina il nostro ordine. È lo Spirito che dà la parola a quei familiari che sono diventati muti, a quei parenti che da anni non si salutano più, a quelle persone a cui è stata tolta la voce. Abbiamo bisogno di questo vento forte capace di stanarci dalle nostre tane segrete, un vento che scuota le nostre pigrizie e in grado di farci uscire dai compromessi che quotidianamente ospitiamo nelle nostre case. Non è un vento che ci fa entrare in chiesa, ma un vento che ci fa “essere chiesa”: gente che tende la mano, persone che riconoscono i bisogni degli altri, cristiani che si sporcano le mani. Questo Spirito è un urgano, più forte delle nostre divisioni e chiusure, più forte delle nostre depressioni, della nostra rassegnazione. Se questo vento entra nelle nostre liturgie mette in difficoltà chi si mette in mostra pensando di servire, crea imbarazzo in chi usa la chiesa per mostrare la moda, mette a disagio coloro che vanno a far bella mostra di sé in vista delle elezioni. Questo Vento è uno scossone anche per chi vorrebbe imporre alla Chiesa una sola lingua, senza valorizzare le diversità che sono frutto dello Spirito. Essere persone spirituali non significa pregare molto, ma è un modo di vivere secondo il Vangelo.

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Domenica 29 maggio 2022 - Ascensione – C (Lc 24,46-53)

L’ascensione di Gesù al cielo è una delle numerose “rappresentazioni” simboliche che si trovano nei testi biblici. È una terminologia spaziale perché nell’antichità si pensava che Dio avesse un luogo in cui risiedere. Il vangelo ci segnala tre gesti di Gesù: invia, benedice, scompare. In questo modo, direbbe papa Francesco, inizia la “Chiesa in uscita”.

L’ascensione di Gesù al cielo è una delle numerose “rappresentazioni” simboliche che si trovano nei testi biblici. È una terminologia spaziale perché nell’antichità si pensava che Dio avesse un luogo in cui risiedere. Il vangelo ci segnala tre gesti di Gesù: invia, benedice, scompare. In questo modo, direbbe papa Francesco, inizia la “Chiesa in uscita”. Innanzitutto “invia”: non vuole una chiesa che metta al centro se stessa, che accenda i riflettori su di sé, ma che si metta in cammino a servizio del mondo. Poi li “bene-dice”: dice bene dei discepoli e del mondo così come sono con tutta la loro fragilità, esprime fiducia e trasmette forza. Infine “scompare”: non abbandona i suoi, ma entra nel profondo di tutte le vite umane. Se prima era insieme con i discepoli, ora sarà dentro di loro. Lungi dall’essere presente con mitezza, sarà presente con la potenza dello Spirito. I discepoli sono chiamati a essere testimoni della passione, morte e risurrezione di Gesù: un percorso che fa conoscere il Maestro e qualifica i discepoli come suoi. Cristo sale al cielo perché il vangelo, attraverso i suoi discepoli, di diffonda sulla terra.

Nella debolezza che contraddistingue le chiese cristiane emerge quanto siano percorse dalla paradossale tentazione di affermare ancora se stesse, anche a scapito del Vangelo. In questi giorni la chiesa ortodossa di Ucraina si è staccata dalla chiesa ortodossa russa di Mosca. Il Patriarcato dell’Ucraina dichiara l’indipendenza dicendo: “stiamo tagliano i lacci che ci legano all’impero”. La scelta degli ortodossi ucraini è forte e ci dice che non si può servire a due padroni. Nel vangelo di oggi si dice che i discepoli «stavano sempre nel tempio lodando Dio». Non nel senso che fisicamente vi stavano giorno e notte, ma che dovunque andassero percepivano la Sua presenza. “Stare nel tempio” significa stare alla presenza di Gesù mentre si vive la vita di tutti i giorni. Il rischio è di stare fisicamente in chiesa e non essere nel tempio di Dio, come si può stare in qualunque posto della terra ed essere nel Suo tempio. Il Risorto che partendo lascia spazio allo Spirito è un’esperienza che non ci piace, perché ci fa sentire soli. Per questo siamo sempre a caccia di presenze, di certezze, di apparizioni. In realtà l’ascensione prepara una presenza diversa che è quella dello Spirito. È quella potenza che ci fa stare dentro molte situazioni umanamente impossibili senza disperare tanto da poter dire: “che spirito ha quella persona!”

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Domenica 22 maggio 2022 - 6 di Pasqua C (Gv 14,23-29)

Mentre Gesù si congeda dai suoi, li rassicura promettendo di mandare lo Spirito, come segno della sua presenza che continuerà nella storia e nel mondo. Gesù è stato l’Amico maiuscolo dei discepoli con i quali ha condiviso le giornate, le gioie e le fatiche, le incomprensioni del mondo e l’amore per le persone, la richiesta di miracoli e la preghiera. Il Maestro sta per andare e aiuta i suoi a passare dal vederlo con gli occhi al vederlo con gli occhi del cuore.

Mentre Gesù si congeda dai suoi, li rassicura promettendo di mandare lo Spirito, come segno della sua presenza che continuerà nella storia e nel mondo. Gesù è stato l’Amico maiuscolo dei discepoli con i quali ha condiviso le giornate, le gioie e le fatiche, le incomprensioni del mondo e l’amore per le persone, la richiesta di miracoli e la preghiera. Il Maestro sta per andare e aiuta i suoi a passare dal vederlo con gli occhi al vederlo con gli occhi del cuore. I discepoli entrano in ansia e si chiedono: E ora cosa faremo senza di Lui? Chi ci aiuterà? Tutto sembrava finito. La terra cominciava a crollare sotto i piedi. Ma Gesù annuncia che continuerà a essere presente dentro di loro in modo diverso. Anche se fisicamente non lo vedranno più, egli continuerà a riscaldare i loro cuori, a ispirare la loro vita. Con la risurrezione i discepoli potranno custodire dentro di loro la presenza del Maestro, la sentiranno più viva di prima. I discepoli e i primi cristiani chiamarono questa esperienza lo Spirito, l’Amore, il Risorto. E Gesù concretizza dicendo: «Se uno mi ama osserverà la mia parola». E aggiunge: «Chi non la osserva non mi ama». Chi non perde mai di vista la Parola non può dire di amarlo! È la stata infatti la sua Parola a farli vivere insieme. Dopo la sua morte sentiranno dentro di loro una presenza che regalerà loro forza.

Gesù promette il Consolatore, lo Spirito che accompagna e protegge. Lo stile di questo Spirito diventa il nostro modo di vivere. Il verbo con-solare indica lo stare con chi è solo. Di fronte ad alcune situazioni non c’è nulla da fare, nulla da dire, ma si tratta solo di esserci. La ferita, la fatica, l’angoscia, le separazioni fanno parte della nostra vita. Non possiamo toglierle! Consolare non significa sdrammatizzare, non vuol dire far finta di niente, non corrisponde a una pacca sulla spalla, ma essere presenti, stare accanto. La forza dello Spirito è già dentro di noi, anche se non la vedi, un po’ come la forza di un albero non sta in ciò che si vede, nelle foglie, nei rami o nel tronco, ma nelle sue radici. Per dirsi cristiani non bastano le pratiche religiose, fare il segno della croce, accendere una candela, incaricare la zia suora di pregare. Gesù chiede di essere amato lasciandosi guidare nella vita dalla sua Parola. Egli chiede un amore autentico che si prende cura di chi ha bisogno con i fatti. Amare a parole non solo conta poco, ma può risultare anche offensivo. Gesù aggiunge che chi ama davvero con i fatti vede Dio entrare e abitare nella casa della sua vita e quindi quella del discepolo diventa una “casa abitata”. Lo sappiamo per esperienza: quando ti senti amato ti senti a casa e la persona che ti vuole bene diventa la tua vera casa. Il suo abbraccio è meglio di una villa, la sua presenza vale più di un giardino con piscina. 

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Domenica 15 maggio 2022 - 5 di Pasqua – C (Gv 13,31-35)

Siamo nella cornice dell’Ultima Cena. Gesù, dopo un ultimo tentativo, ha fallito con Giuda, ma proprio in questo fallimento ha manifestato di essere il Dio amore incondizionato, offerto a tutti. Anche a chi non lo vuole, a chi non se lo merita, a chi lo tradisce. Questa è la sua grandezza, la sua gloria: amare gratuitamente, senza chiedere, senza pretendere, senza toni di ricatto.

Siamo nella cornice dell’Ultima Cena. Gesù, dopo un ultimo tentativo, ha fallito con Giuda, ma proprio in questo fallimento ha manifestato di essere il Dio amore incondizionato, offerto a tutti. Anche a chi non lo vuole, a chi non se lo merita, a chi lo tradisce. Questa è la sua grandezza, la sua gloria: amare gratuitamente, senza chiedere, senza pretendere, senza toni di ricatto. L’amore non è un’emozione, un’elemosina, ma è la scoperta dell’altro che può arricchire la mia povertà. Certo, amare il turista che porta denaro non è amore! Gesù, nel contesto dell’Ultima Cena, dopo aver lavato i piedi ai suoi nel gesto dello schiavo dice: «Figlioli… vi do un comandamento nuovo: che vi amate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri». Ma l’amore si può comandare? Quando si impone un amore non si fa che costringere a recitare, a imitare, togliendo ogni forma di spontaneità. Nelle sue parole Gesù non domanda la perfezione, non cerca uomini e donne che non sbagliano mai, ma persone appassionate della vita che imparano da Lui. Gesù non ci ama perché siamo buoni, perché lo meritiamo, ma amandoci ci fa buoni e così ci rende capaci di amare. Perché amati, possiamo amare!

Lo specifico del cristiano tuttavia non è amare, perché lo fanno in molti sotto il cielo. La prima caratteristica dell’amore evangelico è amare “come” Gesù. Non dice ‘quanto’ vi ho amato, ma “come”: con il suo stile, con la sua gentilezza, con il suo tatto. Amare come Lui significa iniziare dagli ultimi, lasciare le novantanove al sicuro, perdonare i nemici. I cristiani non sono quelli che amano, ma che amano “come” Gesù. La seconda caratteristica è «Come io ho amato voi». Il cristiano è innanzitutto chi si lascia amare. Se vuoi amare lasciati prima amare! L’amore evangelico non giustifica lo sbaglio, ma comprende la fragilità, non giustifica la falsità delle persone pie e dei potenti, ma chiama a prendersi cura della loro debolezza. La terza caratteristica dice: «Amate gli uni gli altri»: tutti, nessuno escluso. Guai se ci fosse un aggettivo a qualificare chi merita il mio amore e chi no. Gesù non si limita a dire “Amate!”, perché potrebbe essere solo una forma di possesso di potere esercitato sull’altro, un amore che pretende e non dà nulla. Ci sono infatti anche amori violenti e disperati, amori tristi e omicidi. Non si ama il mondo in generale, ma questo uomo, questo bambino, questo straniero, questo volto con le sue ferite, le sue rughe, i suoi difetti. Ogni uomo è nostro fratello, ma lui non lo sa. Gli dobbiamo dare delle notizie con i fatti. Una canzone popolare americana canta: «Tu non sei nessuno finché nessuno ti ama!».

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Domenica 8 maggio 2022 - 4 di Pasqua C (Gv 10,27-30)

Nel breve racconto del vangelo Gesù descrive la qualità e il l’intensità unica che esiste tra il pastore e il gregge. Dicendo che il pastore “conosce” le sue pecore, dichiara di avere con loro una relazione d’amore personale e profonda. A loro “dà la vita eterna”, la stessa vita di Dio. La legge che regola il loro rapporto è la reciprocità.

Nel breve racconto del vangelo Gesù descrive la qualità e il l’intensità unica che esiste tra il pastore e il gregge. Dicendo che il pastore “conosce” le sue pecore, dichiara di avere con loro una relazione d’amore personale e profonda. A loro “dà la vita eterna”, la stessa vita di Dio. La legge che regola il loro rapporto è la reciprocità. Queste pecore riconoscono tra mille voci quella del pastore. Non solo odono, ne percepiscono il suono, ma ascoltano la sua voce, facendola risuonare dentro di loro. Se la voce è la sintesi del mistero di una persona, non può stupire l’interesse evangelico per la voce del Signore, come del resto l’accordo tra l’orecchio delle pecore di Gesù e il suono della sua voce. Che cosa ascoltano le pecore nella voce del pastore? Esse ascoltano non solo la sua parola, ma anche la sua reale disponibilità a dare la vita per le pecore, l’eco di tutti i suoi incontri con le persone, il riuscito scontro e incontro con il suo ambiente culturale. Nella sua voce le pecore ascoltano il suo stile di vita, la sua disponibilità, la sua capacità di ascolto, la gioia dei suoi gesti. Se udire è lasciare che le voci entrino ed escano, senza fermarsi, ascoltare è lasciarsi trasformare, è ubbidire. Noi diciamo “questo figlio non mi ascolta”, per dire “questo figlio non mi obbedisce”.

Le pecore sono sospettose di fronte a voci estranee: «non conoscono la voce degli estranei» (v. 5). Accade anche nei pastori di oggi, educatori, formatori, preti, che il corpo rimanga estraneo, in alcuni il complesso mondo affettivo è separato, per altri l’ambiente culturale è percepito solo come alieno. Questa estraneità lascia tracce inconfondibili nella voce del pastore. La sua voce, così originale, non sfugge a nessuna delle pecore… nemmeno a quelle che sono fuori dal recinto. Tutte le pecore percepiscono la sua Voce. Ci sono persone che conducono una vita di fede senza pratica religiosa, che si sporcano le mani con i bisogni degli altri e non vengono per la messa, che compiono segni di solidarietà con chi è nel disagio e non sanno fare il segno della croce. Ascoltare il fratello è farlo ri-suonare dentro di noi e chi non lo ascolta finisce per non ascoltare neppure più Dio stesso, salvo poi parlargli in continuazione con chiacchiere religiose, con toni clericali, con una valanga di parole pie. Ancora oggi noi cristiani rischiamo di incontrare le pietre di un edificio sacro, senza respirare una presenza, senza ascoltare la voce che ci parla e così uscire come siamo entrati. Molti cantieri parrocchiali rischiano di non generare altro che vecchie abitudini, perché manca l’ascolto della Voce, che ci apre all’ascolto delle persone. 

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Domenica 1 maggio 2022 - 2 di Pasqua (Gv 21,1-19)

Dopo la morte in croce del Maestro, i giorni dei discepoli sono colmi di pensieri, pieni di ricordi e di amarezza. Sembra che la parentesi dei tre anni trascorsi con il Maestro sia finita nel modo più drammatico. Per i sette discepoli sono giorni a testa bassa, soprattutto per Pietro. Finiti i loro sogni tornano alla dura realtà di pescatori che conoscono anche il fallimento. Dice infatti il testo: «Ma in quella notte non presero nulla».

Dopo la morte in croce del Maestro, i giorni dei discepoli sono colmi di pensieri, pieni di ricordi e di amarezza. Sembra che la parentesi dei tre anni trascorsi con il Maestro sia finita nel modo più drammatico. Per i sette discepoli sono giorni a testa bassa, soprattutto per Pietro. Finiti i loro sogni tornano alla dura realtà di pescatori che conoscono anche il fallimento. Dice infatti il testo: «Ma in quella notte non presero nulla». È come dire: è stato bello, ma ora bisogna voltare pagina. Eppure quando le reti sono vuote Gesù invita loro a riprendere il largo e gettare le reti. Quella Parola familiare permette loro di riconoscere che «È il Signore». Al ritorno con le reti piene di pesci, i discepoli stanchi trovano un fuoco acceso e una grigliata di pesce con del pane. Poi Egli pone tre brevi e imbarazzanti domande a Pietro: Alle prime due domande «Mi ami?», risponde: «Certo tu lo sai che ti voglio bene»; alla terza domanda Gesù abbassa la richiesta: «Mi vuoi bene?» e Pietro, rattristato per l’insistenza, risponde «Signore tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene». Pietro sembra dire: se non cerchi discepoli perfetti puoi chiamarmi e io ti seguo.

Come i discepoli del vangelo vedremo cambiare la nostra vita quando riusciremo a percepire Questo Signore nelle piccole storie feriali che fanno la nostra storia. Il Risorto lo si incontra nella vita, nelle persone e non nei recinti sacri. Non raramente si cerca Dio in fatti straordinari, nelle apparizioni, perché non lo “vediamo” nostra vita. Lo si cerca fuori, quando in realtà egli appare dentro la grotta del nostro cuore. Sono in molti i reduci da raduni oceanici, da pellegrinaggi straordinari, da esperienze cosiddette forti, che constatano amaramente la propria fragilità nel tirare a riva le quotidiane reti vuote. Gesù non rimprovera chi torna a reti vuote, non accusa, non chiede spiegazioni, perché per lui nessuna persona è il suo peccato. A Gesù non importa del tradimento di Pietro e delle nostre infedeltà, ma chiede di amarlo come siamo capaci. Interrogando Pietro Gesù interroga anche ciascuno di noi: «Mi ami? Mi vuoi bene?». Se l’amore che impegna tutta la vita ci fa paura, se è troppo, ci chiede almeno di volergli bene. Pietro ha compreso che seguire questo Maestro non significa fare carriera, comandare, ma passare per la croce. L’esperienza dei discepoli del vangelo ci sta dicendo che è meglio una fede imperfetta e umile che con le reti vuote torna sempre da Gesù, piuttosto di una fede forte e presuntuosa che rende orgogliosi e arroganti.

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Domenica 24 aprile 2022 - 2a di Pasqua - C (Gv 20,19-31)

Dopo il mattino di Pasqua i vangeli ci pongono una domanda: come incontrare il Risorto? Del gruppo dei discepoli il racconto ci dice due cose: la paura che fa chiudere le porte e la voglia di stare insieme. Di fronte alla paura di essere riconosciuti e di fare la stessa fine del maestro, i discepoli non si separano, ma fanno gruppo, perché nello stare insieme la paura crea meno ansia.

Dopo il mattino di Pasqua i vangeli ci pongono una domanda: come incontrare il Risorto? Del gruppo dei discepoli il racconto ci dice due cose: la paura che fa chiudere le porte e la voglia di stare insieme. Di fronte alla paura di essere riconosciuti e di fare la stessa fine del maestro, i discepoli non si separano, ma fanno gruppo, perché nello stare insieme la paura crea meno ansia. Tommaso non crede ai suoi amici che sotto la croce sono scappati, non crede a Pietro che per tre volte l’aveva rinnegato. E a chi diceva di aver visto il Risorto risponde: «Se non vedo, se non metto il mio dito… io non credo». Le porte chiuse non fermano il Risorto che entra e si pone in mezzo alla loro paura, là dove l’aria sembrava mancare. Il risorto non rimprovera Tommaso, ma mostra le mani dicendo: metti, guarda, tendi la mano, tocca. La risurrezione non ha rimarginato le ferite dei chiodi, perché rimangono aperte per testimoniare il vertice dell’amore. In realtà Tommaso non tocca i fori dei chiodi, ma crede alla sua parola che spezza, disturba, frantuma e porta pace. La sua è una “pace crocifissa”. Chi cerca la pace e non è disposto a pagare un prezzo, porterà la guerra.

Il discepolo Tommaso ci assomiglia, noi che per credere, come lui, non ci accontentiamo di ascoltare, ma vogliamo toccare. Ci sentiamo vicini alla sua fede dubbiosa, dimenticando che il dubbio è il lubrificante della fede, come è accaduto a Maria dopo l’annuncio dell’angelo. Il vangelo spesso ci fa saltare i passaggi che portano alla meta della fede dicendo: “vide e credette. Tommaso ci fa sperimentare la fatica di credere e offrendosi così come l’autentico umano credente. È forte la tentazione di credere solo a ciò che si vede e si tocca: è il credere al denaro, al mercato, alle multinazionali... Ciò che si vede è il trionfo della potenza militare, eppure siamo chiamati a credere che i beati sono i non violenti. Ciò che trionfa è la falsità spesso tele-diffusa, invasiva, suadente, eppure siamo chiamati a credere nella forza disarmata del Vangelo. Qual è allora la prova della risurrezione? È la sofferenza di chi paga il prezzo per amore degli altri. Questa è l’onnipotenza del Signore risorto, perché le sue ferite diventano feritoie d’amore. Aver letto molto sull’amore è conoscenza, ma essere amati è un’altra cosa. È l’esperienza che produce la vera conoscenza. Le nostre liturgie non ci devono soltanto parlare di Dio, ma farcelo sentire, toccare, sperimentare.

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Domenica di Risurrezione 17-04-2022 (Gv 20,1-9)

L’annuncio di Pasqua comincia con una corsa: quella di Maria che corse dal discepolo Simone e insieme corrono al sepolcro. Perché tutti corrono? Perché chi ci vuole bene, merita la fretta di incontrarlo. La risurrezione riguarda i vivi: è un “modo di vivere” già nel presente. Il racconto del vangelo ci descrive la Chiesa, come il gruppo di quelli che sanno aspettarsi, perché tutti hanno un passo diverso e la fede si vive insieme, mai da soli.

L’annuncio di Pasqua comincia con una corsa: quella di Maria che corse dal discepolo Simone e insieme corrono al sepolcro. Perché tutti corrono? Perché chi ci vuole bene, merita la fretta di incontrarlo. La risurrezione riguarda i vivi: è un “modo di vivere” già nel presente. Il racconto del vangelo ci descrive la Chiesa, come il gruppo di quelli che sanno aspettarsi, perché tutti hanno un passo diverso e la fede si vive insieme, mai da soli. È una corsa dove qualcuno arriva prima, ma ha la pazienza di aspettare l’altro. Giovanni arriva prima e crede perché i segni di un sepolcro vuoto parlano solo a un cuore che sa leggerli. La fede non è evidente, mentre la croce, il dolore lo è. Credere non significa comprendere tutto, ma fidarsi che in tutto, anche in ciò che non si capisce, si nasconde un senso. E sono tante le domande senza risposta. Perché una persona a cui abbiamo voluto bene arriva a tradirci? Perché una persona cara ci viene rubata con un incidente o con una malattia? Perché il mondo si trova ad affrontare una tempesta di odio e di rancore che sembra non finire mai? E quando il cuore è appesantito, si blocca e non riesce più a sperare. La fede è un percorso faticoso, tipico di chi si lascia guarire dalle ferite della sfiducia, del tradimento, della delusione. 

Gesù non ha spiegato il dolore, non ha spiegato la croce: è risorto! Nella storia dell’umanità manca un corpo alla contabilità degli uccisi. Gesù risorto ci sta difendo oggi che l’amore è più forte della morte: il vero nemico della morte è l’amore. Siamo discepoli di un Dio vivo. È Risorto per chi si sente abbandonato da tutti, per chi non riesce a riprendere tra le mani la sua vita, per chi da anni si prende cura giorno e notte di un figlio malato. È Risorto per chi dopo mesi di incertezza ha preso una decisione importante che lo rimette in piedi, per chi fa Pasqua lontano dalla famiglia e per chi una famiglia non ce l’ha più. È Risorto per chi non si lascia cercare da Dio e Lui ostinato continua a volergli bene. È Risorto per dire a chi decide di “amare” che non c’è morte che tenga, non c’è tomba che chiuda, non c’è macigno che non rotoli via.Pasqua non è il ricordo di un evento passato, ma significa essere testimoni oggi che Gesù è vivo. È rispondere quando sentiamo grida di morte, è aprire gli occhi quando vediamo le ferite, è continuare a sperare quando la vita ci troviamo incatenati dalla vita, dalla speculazione del mercato, dalle guerre, dalla devastazione ambientale, dal traffico di persone, dalle armi, dalle droghe, dalla violenza di milizie fasciste, dall´odio e dalle divisioni. Fare Pasqua è essere testimoni che Gesù vive, con la stessa fedeltà delle donne sempre pronte a star vicino a chi è crocifisso o sepolto nelle carceri, negli ospedali, nelle case di riposo, nonostante l’incredulità degli apostoli che, anche se consacrati, si chiudono nei loro templi, nei loro moralismi, nella loro arroganza. Gesù è vivo, cammina con noi, tra noi. Pasqua ci dice che chi ama non muore mai!

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Domenica 10 aprile 2022 - C (Lc 22,14-23,56)

Il racconto della passione, nella domenica delle Palme, pone al centro Gesù in croce. Ma a differenza degli evangelisti Marco e Matteo, il Cristo di Luca non appare come un condannato sofferente e insanguinato, perché elimina ogni asprezza e violenza accentuando la docilità, la mitezza del Crocifisso.

Il racconto della passione, nella domenica delle Palme, pone al centro Gesù in croce. Ma a differenza degli evangelisti Marco e Matteo, il Cristo di Luca non appare come un condannato sofferente e insanguinato, perché elimina ogni asprezza e violenza accentuando la docilità, la mitezza del Crocifisso. Luca ha un certo pudore nel presentare la crocifissione, quasi voglia smorzare la responsabilità dei presenti. Egli descrive la crocifissione come uno «spettacolo» da contemplare, da partecipare, perché riguarda tutti: i presenti sotto la croce e noi oggi. Al centro c’è Gesù in croce provocato per tre volte dai capi, dai soldati, dal malfattore:fai un miracolo, scendi dalla croce e ti crederemo!Qualsiasi uomo, qualsiasi re, potendolo, scenderebbe dalla croce. Lui no. Il nostro è il Dio differente, che non ci salva dalla sofferenza, ma nella sofferenza: non la toglie, ma la porta con noi. Non gli è bastato lavare i piedi, non è stato sufficiente lasciarsi tradire, offendere e ferire, ora si lascia vedere a braccia spalancate sulla croce, pronto ad abbracciare ciascuno di noi e dirci: ti voglio bene, così come sei.

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Sergio Gaburro Sergio Gaburro

Domenica 3 aprile 2022 - 5 C - quaresima (Gv 8,1-11)

Ci sono voluti circa tre secoli perché questo racconto trovasse ospitalità nel Vangelo. Il fatto che Gesù salvasse un’adultera, era considerato uno scandalo enorme! Gesù è nel tempio e gli esperti di Dio gli portano una donna sorpresa in adulterio, per essere giudicata e condannata secondo la legge con lapidazione. Per questi esperti è una figura senza nome, non è una persona: è una cosa.

Ci sono voluti circa tre secoli perché questo racconto trovasse ospitalità nel Vangelo. Il fatto che Gesù salvasse un’adultera, era considerato uno scandalo enorme! Gesù è nel tempio e gli esperti di Dio gli portano una donna sorpresa in adulterio, per essere giudicata e condannata secondo la legge con lapidazione. Per questi esperti è una figura senza nome, non è una persona: è una cosa. In realtà l’obiettivo di scribi e farisei non è la donna, ma Gesù al quale gli tendono una trappola. Se infatti il maestro si schiera a favore della donna si mette contro la legge, se si mette contro l’adultera si contraddice condannandola a morte. In realtà Gesù si rifà alla legge inscritta nel cuore di ogni uomo. Invita tutti ad abbassare lo sguardo giudicante, a tacere, a mettersi non ai piedi di un codice penale, ma del mistero di una persona. E dice poche parole lapidarie: «Chi di voi è senza peccato getti per primo la pietra contro di lei». Non le domanda di confessare la colpa, non le chiede se si è pentita, ma la apre al futuro: «Va e d’ora in poi non peccare più». Non le domanda che cosa ha fatto, ma le indica che cosa potrà fare: in libertà potrà tornare ad amare in modo nuovo. 

Gesù non è un moralista, ma mette al centro la persona con tutte le sue lacrime e i suoi sorrisi, la sua carne sofferente e la sua voglia di riscatto. Dice a quella donna: tu non sei l’adultera di questa notte, ma la donna capace di tornare ad amare nel modo migliore. E a noi ripete: tu non sei il tuo sbaglio, ma vali molto di più, tu non sei la tua ombra, ma dentro di te si nasconde una luce che non vedi. Tante persone vivono in una sorta di ergastolo interiore, schiacciate da sensi di colpa per errori passati. Gesù apre le porte delle nostre prigioni, smonta i tribunali su cui spesso trasciniamo noi stessi e gli altri. E domanda: dove sono gli esperti nel vedere solo i peccati negli altri e non dentro di sé? Quelli che sanno solo lapidare e seppellire di pietre, dove sono? Gesù non condanna, non giustifica l’adulterio, non banalizza la colpa, ma fa ripartire la vita, riapre il futuro. Egli descrive il volto di un Dio più grande del nostro cuore. Il giorno del venerdì santo metterà se stesso al posto di quella donna, al posto di tutti i colpevoli e condannati e si lascerà uccidere da quel potere considerato di origine divina, spezzando così la catena malefica di una terribile e sbagliata idea di Dio. 

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