Sergio Gaburro Sergio Gaburro

Natale 2024 (Gv 1,5.9.14)

Nel giorno di Natale il vangelo di Giovanni ci dice che Dio è luce: «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo (Gv 1,9). Ogni essere umano, nessuno escluso, porta dentro quella luce, gode del soffio della vita.

Nel giorno di Natale il vangelo di Giovanni ci dice che Dio è luce: «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo (Gv 1,9). Ogni essere umano, nessuno escluso, porta dentro quella luce, gode del soffio della vita.

Buon Natale a chi dice di aver capito tutto di Dio, della luce vera,

a chi si fa domande e a chi come lo struzzo mette la testa sotto terra.

Buon Natale a chi è libero e disposto a pagarne il prezzo

a chi, magari senza saperlo, sta servendo un padrone.

Buon Natale a chi è ricco di denaro e vive nel buio degli affetti,

a chi sorride alla luce della vita e non ha pane per i suoi denti.

Buon Natale a chi ha sete di giustizia e si trova a bocca asciutta,

a chi giudica alla luce del sole chiudendo gli occhi alla verità.

Buon Natale a chi nello sport vince senza uccidere

e a chi, invece, nel buio della guerra uccide senza vincere.

Buon Natale a chi spegne la luce della televisione,

per accendere la luce del piacere di scambiare una parola.

Buon Natale a chi si alza alla luce dell’alba per aiutare un amico

e chi invece dorme non vedendo il buio dell’amico.

Buon Natale ai bambini poveri che non vivono nel paese dei balocchi

e a chi vede il Natale solo attraverso le confezioni dei regali.

Buon Natale a chi vede il volto ferito della persona accanto

e a chi pur avendolo vicino non lo vede.

Buon Natale a chi gode del matrimonio come un sole

e a chi nel buio finge che quel sole sia vero.

Buon Natale a chi per malattia non può vedere la luce del giorno

e a chi pur vedendola tiene le mani in tasca.

Buon Natale a chi con tristezza ha perduto una persona cara

e a chi non smette di portarla con gratitudine nel cuore.

Buon Natale a chi non aspetta questo giorno per essere migliore

e a chi vive nel dormiveglia rinviando a domani.

Buon Natale a chi impara a star bene con se stesso,

quale condizione per poter star bene con gli altri.

Anche a noi l’angelo ci dice: «Oggi è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore» (Lc 2,11). Che cosa significa Salvatore? Vuol dire che se c’è Lui, la luce vera, il buio non ti fa più paura, sei come tenuto per mano.

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Domenica 22 dicembre 2024 - 4 Avvento C (Lc 1,39-45)

Nell’imminenza del Natale la parola passa a chi di vita se ne intende, a chi la ita la porta dentro e la custodisce. Si tratta di Maria e di Elisabetta, due donne in “dolce attesa” che si incontrano, che al solo cenno di saluto sanno riconoscersi: l’una vede ciò che sta accadendo nell’altra.

Nell’imminenza del Natale la parola passa a chi di vita se ne intende, a chi la ita la porta dentro e la custodisce. Si tratta di Maria e di Elisabetta, due donne in “dolce attesa” che si incontrano, che al solo cenno di saluto sanno riconoscersi: l’una vede ciò che sta accadendo nell’altra. Maria parte e va dalla cugina Elisabetta. Va “in fretta” quasi a dire: “non vedo l’ora di dirti una cosa”. Parte senza chiedere il permesso agli uomini di casa, come era previsto a quel tempo e va per incontrare chi la può capire. Le due donne si capiscono al volto, dallo sguardo. solo chi è vivo può capire la vita, solo chi è innamorato può capire l’amore. Elisabetta, salutata da Maria, riesce e dire: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il tuo bambino”. Sono donne vive non solo perché portano nel grembo la vita, ma perché si stupiscono, riescono a dire bene l’una dell’altra.

Oggi sembra siamo a corto di stupore. Diamo per scontata la vita, le persone, le cose che accadono. Pensiamo di sapere tutto, delle persone e di Dio. Alle domande abbiamo sempre una risposta pronta, non ci stupiamo più di nulla, programmiamo tutto, pianifichiamo i giorni e le ore. Eppure se viene a mancarci la meraviglia, lo stupore non possiamo dire di essere vivi. La nostra vita sembra in qualche modo divisa da un muro: da un lato il ritmo quotidiano, il lavoro, il mutuo, la famiglia e dall’altra parte la fede con le sue preghiere e le sue liturgie. L’esperienza di Dio non può essere una parentesi della domenica in chiesa, perché Lui trova casa nelle persone. Il Dio che nasce si mostra attraverso le relazioni umane: non si manifesta solo nel culto e nelle liturgie, ma nell’incontro, nei saluti, nella parola scambiata, negli abbracci fra persone.

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Domenica 15 dicembre 2024 - 3 Avvento C (Lc 3,10-18)

Nella prospettiva globale del vangelo di luca, l’imminenza del giudizio non è una caratteristica della fine, ma di ogni momento della nostra storia.

Nella prospettiva globale del vangelo di luca, l’imminenza del giudizio non è una caratteristica della fine, ma di ogni momento della nostra storia. La folla, con pubblicani e soldati arruolati nelle fila romane, accostati a Giovanni il Battista gli domandano: «Che cosa dobbiamo fare?». In altre parole la richiesta può essere trascritta in questi termini: “se l’atto di farsi battezzare e l’appartenenza alla stirpe di Abramo non bastano, che cosa dobbiamo fare?” Sembrano cercare una ricetta utile per non fallire nella vita. Vogliono delle indicazioni precise per risolvere i propri problemi, senza essere coinvolti. Essi mostrano un marcato clima di sospensione, di attesa, in cui resta ben salda la prospettiva di un giudizio imminente. Il Battista risponde concretizzando la conversione in termini di amore.

Quando la notte della nostra vita ci impedisce di vedere, quando le strade sulle quali camminiamo non mostrano alcuna indicazione, quando dentro di noi bruciano delusione, confusione e disorientamento, nasce in noi quasi una domanda infantile: “Cosa devo fare? A chi devo prestare ascolto?”. Come fare per abbassare le colline e colmare i burroni di problemi che mi circondano? Così diciamo: “con questo mio lavoro è impossibile cambiare le cose! Quando cambierà il mio datore di lavoro ne riparleremo! Se fossi più giovane avrei più entusiasmo!” Ai pubblicani che facevano la cresta sulle tasse il Battista risponde: “siate onesti”, mentre ai soldati dice “non maltrattate non estorcete: accontentatevi delle vostre paghe”. Non chiede cose straordinarie, ma di fare bene quelle ordinarie: al primo posto ci sia la persona!

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8 dicembre 2024 - Immacolata (Lc 1,26-38)

L’espressione “immacolata concezione della vergine Maria” può prestarsi a confusione.

L’espressione “immacolata concezione della vergine Maria” può prestarsi a confusione. Non dimentichiamo che nelle tradizioni antiche dei popoli si racconta continuamente di nascite verginali e di figli di Dio che vengono dal Cielo. L’allora prof. Ratzinger disse che non sarebbe cambiata per nulla la posizione e la realtà di Gesù “quand’anche fosse nato da un normale matrimonio umano”. Quanto più si esalta una donna vergine, sottomessa, asessuata… tanto più si contribuisce a disprezzare le altre donne, come inferiori al modello ideale. L’esperienza di Maria testimonia che Dio ha avuto bisogno di una donna e dei suoi nove mesi. È più facile mettere a disposizione di Dio un’offerta, un locale, un rito religioso “piuttosto che – direbbe Maria – il “proprio grembo”. In realtà la solennità di oggi “esalta” l’azione generante di Dio in Gesù attraverso Maria.

Il vangelo ci aiuta a ritrovare una persona scomparsa, una donna vera, non una statua. Noi chiamiamo Maria con molti nomi, l’abbiamo rivestita di veli, di corone e di gioielli, dipinta e modellata come fosse una bambola. In questo modo abbiamo velato quella ragazza ebrea piena di fede che, con le sue perplessità e interrogativi, riuscì a dire: “Avvenga di me secondo la tua parola”. Tutto accade a Nazareth nella normalità di una casa, non a Gerusalemme, nel luogo della religione, nel tempio mentre sta facendo riti di preghiera. Maria non è una donna extraterrestre, ma l’icona del credente, del discepolo. È nostra sorella: chiamata beata perché ha creduto alla Parola ed è rimasta fedele fino alla croce del Figlio. Maria ci sta dicendo che Dio va ospitato dentro di noi in un grembo, piangendo con chi è attraversato da drammi devastanti e non predicando a occhi asciutti.

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La prima domenica di Avvento è il capodanno dei cristiani. Quattro settimane per smettere di offendere la vita e riprendere a viverla con rispetto e leggerezza, con ossequio e delicatezza.

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Domenica 20 novembre 2022 (Lc 23,35-43)

In quest’ultima domenica dell’anno liturgico la festa di Cristo re può essere vissuta su due registri assai differenti. Un primo registro rinvia al 1925 quando il papa Pio XI, allarmato dal diffondersi dello spirito ‘laico’, istituì questa festa rilanciando l’immagine medievale di Gesù Cristo come titolare del potere su tutte le cose temporali e così riaffermava il diritto della gerarchia di intervenire in ambito politico. Un’immagine di Cristo davvero alterata e irriverente.

In quest’ultima domenica dell’anno liturgico la festa di Cristo re può essere vissuta su due registri assai differenti. Un primo registro rinvia al 1925 quando il papa Pio XI, allarmato dal diffondersi dello spirito ‘laico’, istituì questa festa rilanciando l’immagine medievale di Gesù Cristo come titolare del potere su tutte le cose temporali e così riaffermava il diritto della gerarchia di intervenire in ambito politico. Un’immagine di Cristo davvero alterata e irriverente. Un secondo registro per vivere questa festa si rifà al vangelo mentre ci ricorda che Gesù fuggì quando vollero farlo re e che la lusinga della gloria non ha mai annebbiato la sua lucidità di profeta e di Messia. Il vangelo di oggi presenta la novità scandalosa di un Dio che presenta la sua regalità dalla Croce. Nelle mani non ha uno scettro, ma dei fori; sul capo non porta una corona d’oro, ma dei chiodi; non siede su un trono lussuoso, ma è appeso alla Croce. Verrebbe da chiederci: “…che razza di re è il nostro Dio?”. È un re diverso, talmente potente da lavare i piedi ai suoi discepoli e così forte da dare un boccone a chi lo stava per consegnare nelle mani dei suoi assassini. Il Dio di Gesù Cristo è onnipotente solo nell’amore!

Gesù sulla croce sta morendo e tutti lo prendono in giro. Gli uomini forti come i soldati lo deridono, ma anche le persone religiose e devote sono scandalizzate. Per tre volte gli ripetono: “Salva te stesso, se sei Dio!” C’è forse qualcosa che vale più di aver salva la vita? Si, sembra affermare Gesù. Qualcosa vale di più: l’amore vale più della vita. Gesù appare un re giustiziato, ma non vinto, un re che si lascia prendere in giro e cheostinato muoreamando, un re che si può rifiutare, ma che non potrà mai rifiutare noi. È il paradosso del cristianesimo. Noi, infatti, siamo sempre a caccia di vittorie, piccole o grandi che siano, coltiviamo il gusto dell’esibizione, il culto ossessivo dell’“Io”. Sogniamo di essere approvati e riconosciuti, cerchiamo consenso e attenzioni. Questo Dio, Re sulla croce, assomiglia al genitore appassionato, che ama anche se rifiutato, ci cerca anche se fuggiamo. Egli è il Re dei perdenti, dei malati, degli ultimi, dei sofferenti, perché sa bene che l’amore o va fino all’estremo o non è amore. Se allora noi siamo figli di questo Re, il potere che ci è dato sarà sempre e solo quello di servire e di amare. Diciamo allora grazie a Dio per tutte quelle mamme di fatto regine senza corona e quei papà di fatto re senza trono, che spendono la loro vita perché altri stiano bene. È troppo facile promuovere devozioni verso un Dio che non si vede, mentre si ignorano, o si strumentalizzano, i fratelli e le sorelle che si vedono.

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Domenica 13 novembre 2022 - 33 C (Lc 21,5-19)

Nel brano di vangelo si affacciano delle immagini a dir poco inquietanti che ci turbano, quando Gesù parlando del tempio afferma: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta».

Nel brano di vangelo si affacciano delle immagini a dir poco inquietanti che ci turbano, quando Gesù parlando del tempio afferma: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». Questo linguaggio tragico, non indica la fine del mondo, ma il significato del mondo. Quando l’evangelista scrive, il tempio è già stato distrutto e quando i cristiani si trovano esposti alla guerra romano-giudaica, alle persecuzioni della comunità di Palestina, alla fuga delle comunità cristiane verso la Giordania, vengono invitati a non perdersi d’animo. Il futuro della comunità cristiana è pieno di ombre, di incertezze e il clima generale non promette nulla di buono. In questo scenario Gesù invita alla fiducia dentro la tempesta, a credere che l’amore è più forte della cattiveria, poiché mettersi al suo seguito significa inoltrarsi su sentieri molto spesso contrastati. Non si tratta di fare calcoli misteriosi sulla fine del mondo giocando agli indovini, ma di rimanere con coraggio dentro la realtà assumendosi le responsabilità. Sono caduti e cadranno tanti pilastri sociali e religiosi, ma non sarà la fine. L’appello di Gesù è di non chiamarsi fuori, ma di restare tenaci, umili, impegnati nel quotidiano lavoro di prendersi cura della terra e delle sue ferite, delle persone e delle loro lacrime.

Il tono catastrofico del vangelo non ci fa volare sopra i problemi, ma ci invita a riporre fiducia nella misteriosa presenza di Dio che non abbandona la storia. I problemi non mancano:il degrado e i latrocini di chi ha responsabilità di governo, la corruzione dilagante, lo sfruttamento selvaggio delle risorse, i rifiuti tossici sepolti nel cuore del nostra madre terra, l’avvelenamento dei cibi e dell’aria che respiriamo, la diffusione delle droghe, la violenza contro le persone, gli abusi sui minori, il commercio delle vite umane, l’industria delle armi, il turismo sessuale… Eppure, certi momenti di disperazione storica, sono paradossalmente spirargli di una ripartenza. Guardando la cronaca nera dei telegiornali ci può prendere l’angoscia e diventare anche noi profeti di sventura dicendo:va sempre peggio, dove andremo a finire? Una volta non era così!In realtà Gesù ci sta dicendo che terremoti, carestie, pestilenze, guerre non sono i segni della fine. Egli non ci fornisce date della fine, non spiega “quando” verrà la fine, ma sposta l’attenzione sul “come” ci si prepara.Badate a non lasciarvi ingannare… non vi terrorizzate, avrete occasione di dare testimonianza. Dicendo che «nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto», Gesù rassicura che Dio è il custode innamorato di ogni frammento di vita e non opera selezioni su chi può scendere dalla croce e chi invece deve restarci. E ci incoraggia dicendo: «Risollevatevi e alzate il capo!».

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Domenica 6 novembre 2022 - 32 C (Lc 20,27-38)

32 – C (Lc 20,27-38)

Il vangelo introduce uno scontro fra Gesù e i Sadducei. Si tratta di un gruppo molto potente di aristocratici, fidatissimi collaboratori del potere, che ritengono ridicola l’idea della risurrezione sostenuta dai farisei come dottrina di fede.

Il vangelo introduce uno scontro fra Gesù e i Sadducei. Si tratta di un gruppo molto potente di aristocratici, fidatissimi collaboratori del potere, che ritengono ridicola l’idea della risurrezione sostenuta dai farisei come dottrina di fede. La questione era molto attuale e per mostrare l’assurdità della risurrezione presentano a Gesù un caso concreto, per costringerlo a schierarsi con loro contro i farisei. A quel tempo la legge del levirato prevedeva che un uomo, qualora il fratello fosse morto senza lasciare figli, doveva sposare la cognata per dare una discendenza e continuità alla famiglia e alla stirpe. Questa norma aveva lo scopo di evitare che la vedova sposasse uno straniero. La domanda tranello che pongono a Gesù è questa: una donna che è rimasta sette volte vedova senza avere figli, alla risurrezione di quale dei sette fratelli che l’hanno sposata sarà moglie? Come spesso accade Gesù non risponde, ma sposta il problema e riconduce il dibattito all’amore di Dio e alla sua fedeltà. Egli argomenta dicendo: Se Dio è il Dio dei vivi, dell’amore, perché mai dovrebbe abbandonare gli uomini nella morte? Non è la vita che vince la morte, ma l’amore. Gesù non dichiara la fine degli affetti. Il poeta Turoldo afferma: «se nel tuo paradiso non posso ritrovare mia madre, tieniti pure il tuo paradiso».

La risurrezione riguarda i vivi. La vita eterna non è un premio che riceverà chi si sarà comportato bene, ma un “modo di vivere” già il presente. Il significato della risurrezione lo comprende chi dà e riceve amore, perché l’amore stesso è eterno, non muore. Accade che le persone che amiamo, anche se non sono presenti fisicamente perché lontane o perché al cimitero, sono per noi molto più presenti di coloro che ci stanno accanto. Persone che non sono più a disposizione e che per noi sono presenza viva, incoraggiamento, ispirazione. Non è la presenza fisica a rendere presenti le persone, ma l’amore. Se non ci si vuole bene, pur vivendo sotto lo stesso tetto, le persone sono assenti. Chi, infatti, dice di credere solo a ciò che vede e tocca, gli manca la profonda esperienza dell’amore. La risurrezione è opera solo di Dio, di quel Dio che ha risuscitato Gesù dai morti, mentre la risurrezione che tocca a noi oggi consiste nell’aiutare a vivere chi è ferito dalla vita, nel sostenere progetti di solidarietà, di ricostruzione, di aiuto a distanza. Come comunità cristiana far risorgere potrebbe voler dire in occasione del matrimonio, della prima comunione, della cresima, delle feste più diverse…,evitare regali convenzionali e sostituirli con un aiuto da destinare a un progetto concreto di solidarietà per far rifiorire le vite appassite, inaridite. Forse il vangelo ci sta chiedendo di costruire “cammini di risurrezione” a favore di chi passa i giorni costretto a un continuo confronto con la disperazione e la morte.

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1 novembre 2022 - Tutti i santi (Mt 5,1-12)

La solennità di tutti i santi è la festa in cui sentirci colmi di gratitudine per Dio, per la vita, per le creature che Dio ha posto sul nostro cammino. Il testo dell’Apocalisse alza il velo per permetterci di spiace ciò che è nascosto e dirci che la santità non è legata all’eccezionalità o ai miracoli, ma alla folla più ampia di persone.

La solennità di tutti i santi è la festa in cui sentirci colmi di gratitudine per Dio, per la vita, per le creature che Dio ha posto sul nostro cammino. Il testo dell’Apocalisse alza il velo per permetterci di spiace ciò che è nascosto e dirci che la santità non è legata all’eccezionalità o ai miracoli, ma alla folla più ampia di persone. Alzando il velo possiamo scoprire che la “la salvezza appartiene a Dio”, la santità è opera di Dio e che non è un fatto riservato a pochi, ma una possibilità per tutti. Il libro parla di “una moltitudine, immensa che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua”. Se alzi il velo dai tuoi occhi puoi vedere che la santità lo tocchi con mano là dove vivi, nelle persone che incontri. Questa santità si mostra nella pazienza delle persone, nei genitori che crescono con passione i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati che su un letto d’ospedale regalano serenità. È la santità che papa Francesco chiama “della porta accanto”, di chi vive vicino a noi e riflette con la qualità del suo vissuto la presenza di Dio.

Nella loro normalità quotidiana Gesù chiama le persone “beati”. Non sono quelle che entrano nel calendario e chiamiamo prima “servo di Dio”, poi “beato”, poi “santo”, ma persone in carne e ossa, tribolate e piene di speranza, ferite e fiduciose. Chiama “beati” donne e uomini comuni. Li canonizza senza procedure sofisticate, li canonizza da vivi, con le loro storie di ordinaria bontà. In alcune riconosce un sentire umile, in altre uno sguardo compassionevole, in altre la limpidezza di cuore, in altre ancora la mitezza, in altre la passione per la costruzione della pace, in altre la sete per la giustizia, in altre la resistenza alla sopraffazione. Lui li faceva beati, santi. E non è che fosse gente da miracoli, o eroi di perfezione! È bello che la santità sia moltitudine, vissuta da ciascuno in un modo originale, unico, irrepetibile. È la santità del genitore, dell’operaio, dei bambini, degli anziani, dei morti e dei vivi, dei credenti e di chi dice di non credere e non smettere di distribuire notizie di vangelo. Tra il libro del vangelo e i santi c’è tutta la differenza che corre tra la musica scritta e la musica cantata.

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Domenica 30 ottobre 2022 - 31 C (Lc 19,1-10)

Mentre Gesù sta attraversando la città di Gerico verso Gerusalemme, la gente mormora nel vedere un maestro e un ladro che si cercano con lo sguardo. Per la gente questi sguardi che si incrociano sono “fuori luogo”. In realtà quello di Gesù è lo sguardo mosso dall’amore e quello di Zaccheo mosso da chi desidera vedere questo maestro di cui si parla e trova molto seguito. La prima scena descrive i due personaggi che si cercano: Zaccheo cerca di vedere, corre in avanti, sale sull’albero, Gesù cammina, alza gli occhi e lo vede.

Mentre Gesù sta attraversando la città di Gerico verso Gerusalemme, la gente mormora nel vedere un maestro e un ladro che si cercano con lo sguardo. Per la gente questi sguardi che si incrociano sono “fuori luogo”. In realtà quello di Gesù è lo sguardo mosso dall’amore e quello di Zaccheo mosso da chi desidera vedere questo maestro di cui si parla e trova molto seguito. La prima scena descrive i due personaggi che si cercano: Zaccheo cerca di vedere, corre in avanti, sale sull’albero, Gesù cammina, alza gli occhi e lo vede. Nello sguardo si incontrano. La seconda scena descrive l’incontro di un Gesù che lo chiama per nome, si autoinvita a casa sua e Zaccheo, avvertendo lo sguardo e la parola del maestro che vanno dritte al cuore, si avverte interpellato. La terza scena rivela il cambiamento: «scese in fretta e lo accolse pieno di gioia». Lui che era abituato a riscuotere i crediti, finalmente ha trovato qualcuno che gli fa credito, che gli dà una fiducia non meritata. Il peccatore si scopre amato, senza un perché. Semplicemente amato.

La gente considera il loro incontro davvero “fuori luogo”. Eppure Gesù si muove nello spazio dell’amore e Zaccheo inciampa nella misericordia. Il maestro non dice a Zaccheo: “Che razza di uomo sei! Bel mestiere che fai! Sei molto ricco perché hai molto rubato!”. Secondo i cosiddetti “puri” non ha senso per il maestro farsi invitare nella casa di un impuro, perché se ci va diventa impuro lui stesso. Ma è “fuori luogo” anche Zaccheo esporsi al ridicolo salendo su un sicomoro. È indecoroso per il suo stato sociale di persona conosciuta, temuta come l’avido esattore delle imposte, il capo dei ladri. Come Zaccheo, rischiamo di pensare che Dio si avvicini a noi solo quando siamo puri, ma per fortuna lui la pensa diversamente. Per tutti era il “capo dei peccatori”, per Gesù è Zaccheo. Egli non gli dice:scendi e vai a pregare, entra in chiesa, vai a confessarti. Zaccheo prima incontra il maestro, poi si converte. Gesù cambia i peccatori mangiando con loro, condividendo cibo e vita. Noi rischiamo di essere rimasti ancora ad attendere i peccatori nel tempio, nei luoghi sacri, perché vengano e si convertano. Gesù non li attende, ma li cerca, va a casa loro. Penso sia giunto il tempo in cui anche la chiesa possa dire: «Devo fermarmi a casa tua», non devo guardare con sospetto, non devo avere paura del confronto e come la pioggia non devo distinguere il terreno buono da quello che non produce.

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Domenica 23 ottobre 2022 - 30 C (Lc 18,9-14)

Muovendo dal tema della preghiera l’obiettivo della parabola del vangelo è di raddrizzare il modo di concepire Dio, se stessi e il prossimo. Gesù parla per coloro che presumono di essere buoni e disprezzano gli altri. Non si può con la preghiera disprezzare gli altri per sentirsi buoni. Due sono i personaggi della parabola: un fariseo e un pubblicano, che salgono al tempio per pregare.

Muovendo dal tema della preghiera l’obiettivo della parabola del vangelo è di raddrizzare il modo di concepire Dio, se stessi e il prossimo. Gesù parla per coloro che presumono di essere buoni e disprezzano gli altri. Non si può con la preghiera disprezzare gli altri per sentirsi buoni. Due sono i personaggi della parabola: un fariseo e un pubblicano, che salgono al tempio per pregare. Due modi diversi di stare davanti a Dio a se stessi e agli altri. Da un lato c’è il fariseo, il modello della religiosità del tempo: egli fa una preghiera lunga, in piedi, in silenzio, dicendo: io ringrazio, io non sono, io digiuno, io pago. Al centro pone se stesso. Davanti a Dio si sente a posto perché rispetta in modo scrupoloso i comandamenti. Dall’altra parte c’è il pubblicano, un esattore delle imposte che pagava al governo romano e che poi le esigeva per proprio conto, imbrogliando i poveri. Egli prega stando a distanza perché sa di essere lontano da Dio, la sua preghiera è breve, abbassa lo sguardo, sa di essere peccatore, sa bene di non poter farcela da solo. Tutti e due dicono la verità, ma solo il pubblicano torna salvato, perché si presenta davanti a Dio riconoscendo il suo limite.

Due modi di stare avanti a Dio. Come tutti i fondamentalisti il fariseo vede l’errore soltanto negli altri, nel mondo che sta fuori. Egli «prega tra sé», cioè rivolto verso se stesso, prega guardandosi allo specchio dicendo: «non sono come gli altri», ladri, prostituti, disonesti. Egli interpreta la possibilità di sentirsi cristiani senza Cristo, persone osservanti delle regole, eppure lontane da Dio. Forse è capitato anche a noi di entrare in chiesa e nel vedere qualcuno che conosciamo dire: “Eccolo, viene in chiesa, ma poi fuori si comporta male, dov’è la coerenza?”. Diversamente il pubblicano per Dio è salvato non perché umile, ma perché riconosce con verità la sua situazione di peccato. Si riconoscedis-graziato, senza grazia, senza armonia interiore, bisognoso. Non mette al centro della sua preghiera se stesso, il proprio “io”, ma Dio, l’altro, il “tu”. Il fariseo fonda la sua preghiera su ciò che egli fa per Dio, mentre il pubblicano su ciò che Dio fa per lui. Il fariseo si dichiara già salvato, il pubblicano attende la salvezza. Dal nostro sguardo sugli altri possiamo dedurre se la nostra preghiera è vera e se il Dio che preghiamo è quello di Gesù o una nostra caricatura.

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Domenica 16 ottobre 2022 - 29 C (Lc 18,1-8)

Con una parabola Gesù parla della «necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai». Si parla della stanchezza del grido che non ha risposta. È la stanchezza che avrebbe potuto prendere la vedova del Vangelo che dicendo al giudice «Fammi giustizia», non trovava risposta. È un giudice corrotto che difende gli interessi di chi lo paga di più. Egli non detesta la vedova, ma la ignora.

Con una parabola Gesù parla della «necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai». Si parla della stanchezza del grido che non ha risposta. È la stanchezza che avrebbe potuto prendere la vedova del Vangelo che dicendo al giudice «Fammi giustizia», non trovava risposta. È un giudice corrotto che difende gli interessi di chi lo paga di più. Egli non detesta la vedova, ma la ignora. Ciò che vince il giudice è l’insistenza della donna, che nella sua debolezza ha a disposizione la fermezza, il non mollare mai. Perché si è chiamati a insistere nella preghiera senza stancarsi? Perché l’impressione è che Dio, come quel giudice, temporeggi, esiti, sia in ritardo. Nella comunità dell’evangelista Luca domina l’ingiustizia e si fatica a credere che Dio sia il difensore degli oppressi, perché nonostante le preghiera nulla sembra cambiare. Accade che anche noi insistiamo con la preghiera nel tentativo di convincere Dio a esaudirci, come se Lui non sapesse ciò che ci serve. In realtà Dio non ha bisogno della nostra preghiera, ma siamo noi che pregando ci lasciamo trasformare, facendo della vita, del lavoro, dello studio una lode a Dio.

Al termine Gesù pone la domanda: «Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». Non chiederà se la gente andrà ancora a messa, ma chiederà della fede. Quando tornerà quale fede troverà? Troverà la fede di chi per anni ha vegliato e curato il marito invalido senza mai lamentarsi, riconoscerà l’amore di chi si è preso cura del figlio disabile con serenità, incontrerà chi non si accontenta di essere solo un cristiano della domenica, scoverà chi trova nella preghiera la forza di portare pesi incredibili senza lamentarsi… Non raramente la mia preghiera diventa domanda:perché o Signore non fai nulla per chi muore di fame, per chi è malato, per chi non conosce l’amore? Perché sembri dimenticarti di chi subisce ingiustizie, di chi è vittima della guerra, di chi non ti conosce?E il Signore rispondeio ho fatto tutto quello che potevo fare: Io ho fatto te!In quel momento ho capito che io posso dare il pane a chi ha fame, fare visita al malato, amare chi non è amato, combattere l’ingiustizia, portare pace. Il Signore ci chiede di pregare senza stancarci, senza perdere la speranza, senza mai mollare. Quando nello sport alla fine della partita il punteggio si ribalda, noi diciamo:ci ha creduto fino alla fine!Si tratta di non mollare, di non piegarsi all’ingiustizia: questa è la fede che il Figlio dell’uomo vorrà trovare.

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Domenica 9 ottobre 2022 - 28 (Lc 17,11-19)

Gesù attraversa confini di terre diverse, religiosamente ostili, come se per lui non esistessero confini. La lentezza del camminare favorisce gli incontri. Entra in un villaggio e gli vanno incontro dieci lebbrosi: nove giudei e un samaritano. Tra loro non scorre buon sangue, ma sono uniti dalla sofferenza della lebbra: una malattia che li costringe a restare fuori dalla comunità umana, religiosa e civile. Al lebbroso è impedito ogni contatto: è impuro e ufficialmente emarginato.

Gesù attraversa confini di terre diverse, religiosamente ostili, come se per lui non esistessero confini. La lentezza del camminare favorisce gli incontri. Entra in un villaggio e gli vanno incontro dieci lebbrosi: nove giudei e un samaritano. Tra loro non scorre buon sangue, ma sono uniti dalla sofferenza della lebbra: una malattia che li costringe a restare fuori dalla comunità umana, religiosa e civile. Al lebbroso è impedito ogni contatto: è impuro e ufficialmente emarginato. Il dolore diventa grido di aiuto e Gesù, nel rispetto della Legge, dice loro: «andate a presentarvi dai sacerdoti». La massima autorità del tempo per dichiarare l’avvenuta guarigione. In realtà essi guariscono non quando arrivano dai sacerdoti, ma mentre camminano. L’unico che torna a ringraziare Gesù è un eretico straniero, perché intuisce che la salute non viene dai sacerdoti, ma da Gesù: non dall’osservanza di leggi e di riti, ma dal vivo rapporto con Lui. Per questo Gesù dice: «La tua vede ti ha salvato». Nove sono guariti, ma uno solo è salvato. Nove guariti esternamente  nella pelle, uno solo guarito internamente nel cuore.

Come si può pensare la fede dei nove che non ritornano a ringraziare? È una fede ristretta nei confini della Legge che prescrive di presentarsi ai sacerdoti. In realtà, non senza ironia, si sta dicendo che andando obbediscono a un ordine di Gesù. Egli loda chi non ha portato a termine l’ordine della Legge, ma si è lasciato prendere dal cuore, dall’urgenza di ringraziare. L’obbedienza formale è un profondo inganno. Il rischio sempre in agguato è che la nostra puntualità ai rituali religiosi, civili e sociali ci possa imprigionare e inaridire. Il formalismo della religione può soffocare la fede! L’eucaristia domenicale esprime la nostra gratitudine a quel Dio che durante la settimana ci ha fatto camminare con fiducia. Tuttavia anche la messa della domenica può diventare una semplice osservanza, un precetto senza gioia, un rito senz’anima. Se non tutti entrano in chiesa per ringraziare e ascoltare la buona notizia del Vangelo, questi uomini e donne possano allora leggere questa buona notizia sui nostri volti, nei nostri occhi, quando camminiamo e quando sediamo con loro. Gesù ci sta dicendo:non basta guarire il corpo se non cambia il cuore.Se ascolti la mia Parola ti accorgerai di guarire mentre cammini, prima ancora di arrivare dal sacerdote!

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Sergio Gaburro Sergio Gaburro

Domenica 2 ottobre 2022 - 27 C (Lc 17,5-10)

Di fronte alle richieste esigenti del Maestro, che chiede ai discepoli di prendersi cura dei più deboli e di perdonarsi reciprocamente, essi rispondono: se vuoi che prendiamo sul serio ciò che domandi: «accresci in noi la fede». È così poca! Gesù non esaudisce la richiesta, perché la fede non è un “pacco-dono” che arriva da fuori, ma la risposta interiore del discepolo ai doni di Dio.

Di fronte alle richieste esigenti del Maestro, che chiede ai discepoli di prendersi cura dei più deboli e di perdonarsi reciprocamente, essi rispondono: se vuoi che prendiamo sul serio ciò che domandi: «accresci in noi la fede». È così poca! Gesù non esaudisce la richiesta, perché la fede non è un “pacco-dono” che arriva da fuori, ma la risposta interiore del discepolo ai doni di Dio. Unità di misura della fede è un granello di senape, il più piccolo di tutti i semi: non si tratta di aumentare la fede in quantità, ma in qualità. Fede come semente, come briciola, come frammento: quella che nella sua piccolezza e sua fragilità ha ancora bisogno di Lui. Fede come servizio di chi rientra dal campo e continua a servire, senza sedersi a tavola per farla da padrone. È il servizio fatto senza cercare l’interesse, senza pretendere risultati immediati, più importante del suo riconoscimento.

A quale fede si riferisce Gesù? Quella dei kamikaze, dei fondamentalisti di tutti i generi, degli integralisti di tutte le religioni, o di quella spenta e tiepida di uomini e donne pronti a defilarsi quando la fede non giova alla propria carriera o alla propria fama? La fede alla quale ci riporta Gesù è quella del servo che dopo aver servito si dichiara “in-utile”, cioè senza un utile, senza pretese. I non cercatori di utile siamo noi, mentre utile è il servizio! Perché servire senza aspettarci nulla? Perché Dio è il grande “servo” della nostra vita e servire ci rende somiglianti a Lui. Riconoscere la gratuità del nostro agire ci libera dall’ansia di pensare che tutto dipenda da noi. Facciamo cose belle, importanti, ma non siamo indispensabili e nemmeno possiamo arrogarci il diritto di essere padroni. Il Signore ci dice: ricordati di rimanere l’operaio gradito della mia vigna, non calpestare gli altri per farti un nome, una carriera, una fortuna, lìberati dal delirio di onnipotenza, dall’illusione di essere necessario e insostituibile. Non dimenticare cheDio esiste, ma non sei tu, rilassati!

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Sergio Gaburro Sergio Gaburro

Domenica 25 settembre 2022 - 26 C (Lc 16,19-31)

La parabola del vangelo si gioca su un duplice contrasto: il povero e il ricco, durante la vita e dopo la morte, che vedono scavarsi tra di loro un “grande abisso”. Il racconto non parla dell’aldilà, ma dell’aldiquà, perché già ora decidiamo il nostro destino. Dio non è mai nominato, ma si parla solo dei due protagonisti. In un primo momento il ricco e il povero si incontrano, ma non si salutano.

La parabola del vangelo si gioca su un duplice contrasto: il povero e il ricco, durante la vita e dopo la morte, che vedono scavarsi tra di loro un “grande abisso”. Il racconto non parla dell’aldilà, ma dell’aldiquà, perché già ora decidiamo il nostro destino. Dio non è mai nominato, ma si parla solo dei due protagonisti. In un primo momento il ricco e il povero si incontrano, ma non si salutano. Il primo è vestito di porpora, il secondo di piaghe. Il primo vive una vita agiata in una casa di lusso, il secondo è un barbone, abita la strada, i cani gli leccano le ferite e litiga con essi per qualche briciola. Il ricco non ha un nome, mentre il povero si chiama Lazzaro. In un secondo momento il ricco e il povero muoiono e le parti sono rovesciate. Da qui l’invocazione del ricco: «Ti prego, padre Abramo, manda Lazzaro con una goccia d’acqua sulla punta del dito». Quasi a dire: che cosa ti costa? Manda una gocciolina! Non solo, ma avvisa i miei cinque fratelli che sono a rischio. E invece no, perché non sono i miracoli a cambiare la vita delle persone e neppure il ritorno in vita di un morto. Hanno il vangelo, lo ascoltino!

Non si dice che il ricco è una cattiva persona, un usuraio, un ladro, un delinquente, forseè anche un credente devoto.Ogni giorno, tuttavia, davanti al povero allunga il passo come quando si evita una pozzanghera. Non se ne parla di salutarlo, di fermarsi e nemmeno di toccarlo. La ricchezza lo ha separato dagli altri. Lui che pensava di essere qualcuno, si trova senza nome, perché lui non è ciò che possiede: è ricco, ma davanti a Dio non è nessuno! Anche oggi non sono poche le persone che hanno perso il proprio nome, la propria dignità, perché l’hanno sostituita con altri nomi:denaro, carriera, potere, successo, lavoro, investimenti in borsa… L’inferno non è che il prolungamento delle nostre scelte. Dove non c’è il cuore Dio è assente. È vero cheil ricco non fa del male a Lazzaro, ma fa di peggio: è indifferente, sordo al suo lamento, non riconosce che esista. Questo ricco domanda per i suoi fratelli un miracolo, senza capire che i miracoli impressionano, ma non convertono. Anche noi rischiamo di rincorrere apparizioni e miracoli, ponendo delle condizioni a Dio:se fai il miracolo ti credo! In realtà il primo miracolo è accorgersi che l’altro esiste!

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Sergio Gaburro Sergio Gaburro

Domenica 18 settembre 2022 - 25 C (Lc 16,1-13)

La parabola del vangelo crea un certo imbarazzo perché il padrone loda l’amministratore disonesto. Gli ha rubato tanti soldi e lo loda perché è stato scaltro, astuto, intraprendente. Non è un invito a essere disonesti. Questo amministratore ha gestito per tanto tempo le attività del suo padrone e accade che quando si ha la fiducia di qualcuno, quando girano tanti soldi, si fa un piccola cresta di qua, una di là, dicendo: cosa vuoi che sia per tutta la ricchezza del padrone? 

La parabola del vangelo crea un certo imbarazzo perché il padrone loda l’amministratore disonesto. Gli ha rubato tanti soldi e lo loda perché è stato scaltro, astuto, intraprendente. Non è un invito a essere disonesti. Questo amministratore ha gestito per tanto tempo le attività del suo padrone e accade che quando si ha la fiducia di qualcuno, quando girano tanti soldi, si fa un piccola cresta di qua, una di là, dicendo: cosa vuoi che sia per tutta la ricchezza del padrone? Ma questo proprietario sembra avere mangiato la foglia, qualcosa non gli torna e gli chiede di rendere conto della sua amministrazione. È in questo momento che l’amministratore decide di farsi degli amici. Chiama i debitori del padrone e con una strategia risana i bilanci dicendo: se tu gli devi 100.000 € tu dagliene 50.000 € e io ti faccio la ricevuta per 100.000€, e va bene così. Ha cambiato strategia: non sta più rubando il padrone per sé, ma per gli altri, non ruba in denaro, ma in amici. In realtà a Gesù non interessa l’infedeltà del fattore o i mezzi che usa per farsi degli amici, ma vuole che il discepolo si lasci impressionare dalla rapidità e dalla furbizia con cui questo fattore mette al sicuro il suo avvenire. 

Gesù non loda la corruzione, non esalta l’imbroglio, come accade anche oggi che qualcuno dopo aver rubato per una vita ne esce con riconoscimenti. Diversamente loda l’amministratore per la capacità di cogliere al volo una situazione difficile, per la prontezza nell’affrontarla. Forse noi cristiani ci fermiamo spesso a lamentarci del mondo, senza la sollecitudine di viverci dentro con passione. Siamo scaltri negli affari, furbi nei nostri interessi, astuti nel cercare i migliori investimenti in borsa. Non ci manca la prontezza nel fiutare un tornaconto da un’amicizia o da una relazione con una persona. Subito gli facciamo fare il padrino o la madrina al Battesimo o alla Cresima dei nostri figli, o i testimoni alle nostre nozze. Gesù non propone l’amministratore come modello di disonestà, ma come esempio di astuzia e denuncia anche il rischio della ricchezza. Questa, pur essendo dono di Dio, è anche inganno. Al discepolo dice: non puoi investire nel denaro come fosse un dio, non puoi inginocchiarti in chiesa, mentre il tuo Dio è in banca. La ricchezza, infatti, promette ciò che non può mantenere, un po’ come spesso accade ai politici di non misurare il costo di ciò che promettono, quale peggiore degli inganni. Un giorno – dice il Vangelo – ti accoglieranno quelli a cui hai dato, non quelli che hai sfruttato.

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Domenica 11 settembre 2022 - 24 C (Lc 15,11-32)

Domenica 11 settembre 2022 - 24 C (Lc 15,1-32)

La parabola del vangelo si propone di farci cambiare idea su Dio. Protagonisti non sono i due fratelli, ma il padre pronto all’abbraccio. Il più giovane dei figli parte con un tono disinvolto, con le tasche piene di soldi. Aveva infatti chiesto al padre il patrimonio/l’eredità (in greco τὸν βίον: la vita!), quasi avesse detto: “Padre, perché non muori?”. Se ne va lontano in cerca di felicità, taglia i legami con la famiglia, rinnega le sue radici. Parte e fa naufragio, libero e ribelle diventa schiavo fino a desiderare il cibo dei porci.

La parabola del vangelo si propone di farci cambiare idea su Dio. Protagonisti non sono i due fratelli, ma il padre pronto all’abbraccio. Il più giovane dei figli parte con un tono disinvolto, con le tasche piene di soldi. Aveva infatti chiesto al padre il patrimonio/l’eredità (in greco τὸν βίον: la vita!), quasi avesse detto: “Padre, perché non muori?”. Se ne va lontano in cerca di felicità, taglia i legami con la famiglia, rinnega le sue radici. Parte e fa naufragio, libero e ribelle diventa schiavo fino a desiderare il cibo dei porci. È il ritornello di sempre: fin tanto che hai il potere e i soldi vali qualcosa, quando sei un semplice miserabile vali meno di un maiale. E pensa: se ritorno da mio padre posso almeno sopravvivere come gli altri servi! Così decide di tornare, non per amore, ma per fame. Non appena il padre lo vede è impaziente di abbracciarlo perché torni a essere figlio e non servo. Il figlio maggiore sentendo la festa riserva a chi è tornato entra in crisi. Lui ligio al dovere, non ha mai lasciato la casa, non ha sprecato il suo tempo, il suo denaro, non sa cos’è il piacere. Anche lui, come il più giovane, era con il suo cuore lontano dalla casa del padre: un forestiero in casa sua. Ma il padre non ha figli da perdere: entrambi li abbraccia perché tornino a essere figli.

Se il figlio minore è l’immagine della miseria umana, il maggiore è il figlio che tutti i genitori vorrebbero. Lui sì che è buono, l’altro invece è sempre stato la pecora nera della famiglia. Il maggiore si chiede: perché tanta festa per chi ha fatto ciò che ha fatto? Non è giusto! In realtà il maggiore era rimasto a casa per dovere. Risentito e infelice si è perso restando a casa senza un fratello e senza un padre. Questo padre, tuttavia, non discute gli errori o i meriti dei figli: a lui importa riconquistare i figli, non retribuire le loro azioni. È lo scandalo di un Dio padre e madre, pronto a salvarmi dal mio cuore di servo e restituirmi un cuore di figlio. Del resto si può costringere un padre a respingere il figlio, qualsiasi cosa abbia fatto? Il figlio maggiore ci interpreta quando, pretendiamo di essere noi a dettare come e chi il Padre debba amare! Se il padre dice: «questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita!», noi a rispondere: Non c’è posto per chi ha sbagliato, per gli altri! Non ce lo possiamo permettere! Non possiamo estendere i diritti a tutti! Prima gli italiani! Prima la famiglia! Come può essere che per gli altri è pronto un vitello grasso e per noi nemmeno un capretto? Italiani che dormono in macchina e i profughi li mettono nell’hotel? È la voce del fratello maggiore, dei fratelli maggiori di ieri e di oggi, di chi è vissuto accanto al Padre senza imparare a pensare come Lui. Questo Padre sembra stanco di avere servi per casa, invece che figli!

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Domenica 4 settembre 2022 - 23 C (Lc 14,25-33)

Il linguaggio di Gesù è sempre spiazzante e le sue esigenze radicali. Egli si trova sulla strada  e parla alla folla che lo seguiva entusiasta e interessata, precisando che per seguirlo occorre fare dei calcoli prima di buttarsi in un’impresa, come quando si costruisce una torre o si mette insieme un esercito per vincere. Gesù non cerca il consenso della folla, l’incontro oceanico o chi lo segue perché tutti fanno così.

Il linguaggio di Gesù è sempre spiazzante e le sue esigenze radicali. Egli si trova sulla strada  e parla alla folla che lo seguiva entusiasta e interessata, precisando che per seguirlo occorre fare dei calcoli prima di buttarsi in un’impresa, come quando si costruisce una torre o si mette insieme un esercito per vincere. Gesù non cerca il consenso della folla, l’incontro oceanico o chi lo segue perché tutti fanno così. Non fa propaganda vocazionale, ma dissuade. Non vuole illudere nessuno e nemmeno strumentalizzare entusiasmi o fragilità. Al numero dei discepoli, preferisce la qualità. Tre sono le condizioni che indica per seguirlo. Innanzitutto dicendo «se uno non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli… non può essere mio discepolo», sembra irritarci. In realtà non entra in concorrenza con i nostri affetti umani, non è geloso. Sta dicendo che se ami come Lui, amerai meglio e di più le persone care, anche quando possono diventare impegnative e scomode. Inoltre chiede di saper portare la croce, che significa portare l’amore fino in fondo. Infine domanda di rinunciare alle cose, agli averi, all’accumulo.

Gesù si rivolge a chi è già cristiano e nelle difficoltà è chiamato a perseverare. A noi sta dicendo: se vuoi seguirmi fai bene i tuoi conti! Dapprima Gesù non usa un linguaggio felpato, diplomatico, curiale, sembra piuttosto quello di un esaltato: “Se uno non mi ama di più…”. Egli non ruba i nostri amori, non chiede di sacrificare i legami del cuore, ma tutto ruota attorno al verbo “amare”. Si tratta di amare tua moglie, tuo marito, tuo figlio senza legarli ai tuoi desideri, senza servirti di loro, senza che diventino la fonte di un egoismo mascherato, cieco e possessivo. Se si ama in modo geloso, asfissiante, accentratore, prima o dopo quell’amore si scioglie come la neve al sole. In un secondo momento Gesù chiede di saper portare la croce come scelta di libertà. Il suo sogno non è di vedere persone rassegnate che camminano in un’eterna “via crucis”. Quanto “dolorismo” cattolico è stato trasmesso attraverso l’espressione del “portare la croce”! Da ultimo Gesù chiede di rinunciare a ogni bene. Non si va in cielo né con gli euri, né con le ville, né con un forte esercito. Egli domanda di uscire dall’ansia di possedere, dall’illusione che fa dire: io ho, accumulo e quindi valgo, sono qualcuno!

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Domenica 28 agosto 2022 - 22 C (Lc 14,1.7-14)

Al pranzo di un capo dei farisei, la gente osserva Gesù ed egli osserva gli invitati. Gli sguardi si incrociano in quella sala che è il ritratto della vita, in cui non manca il fascino di conquistare i primi posti, la tentazione del competere, illusi che vivere sia vincere, dominare gli altri. Gesù rovescia questa logica: tu vai a metterti all’ultimo posto. Non per modestia, ma per solidarietà, per poter dire all’altro: prima tu, dopo io. Sono invitato a mettermi all’ultimo posto non perché non valgo nulla, ma perché l’altro, torni a essere mio fratello.

Al pranzo di un capo dei farisei, la gente osserva Gesù ed egli osserva gli invitati. Gli sguardi si incrociano in quella sala che è il ritratto della vita, in cui non manca il fascino di conquistare i primi posti, la tentazione del competere, illusi che vivere sia vincere, dominare gli altri. Gesù rovescia questa logica: tu vai a metterti all’ultimo posto. Non per modestia, ma per solidarietà, per poter dire all’altro: prima tu, dopo io. Sono invitato a mettermi all’ultimo posto non perché non valgo nulla, ma perché l’altro, torni a essere mio fratello. L’ultimo posto non è quello del castigo, ma di Dio, di Gesù, venuto non per essere servito, ma per servire altri. E precisa: quando offri un pranzo non invitare amici, fratelli, parenti, vicini di casa ricchi, che un domani potrebbero esserti utili, ma poveri, storpi, zoppi, ciechi. Invita questi ultimi non perché tu ne hai bisogno di farti bello, ma perché loro ne hanno bisogno. E sarai beato, perché non hanno da ricambiarti, perché ti stai comportando come agisce Dio. Nel vangelo il verbo “amare” si traduce sempre con il verbo “dare”.

Gesù coglie nel segno un problema antico e moderno. Anche oggi apparire è più importante dell’essere. Essere invitati e trattati con riguardo e addirittura poter sedere in prima fila, significa conquistare un’altra e un’alta considerazione tra la gente. Occupare il primo posto significa sentirsi qualcuno almeno per un momento, uscire dal grigiore dell’anonimato, almeno per quel giorno. Quanto si sgomita per avanzare nella carriera, nel successo, nella fama, e gli spazi religiosi non fanno eccezione. Se si entra nella logica della smania del primo posto, l’impegno professionale, politico, amministrativo, ecclesiale vengono stravolti. Le parole come “popolo, chiesa, comunità, cittadini, nazione, poveri…”, possono semplicemente servire a nascondere gli interessi o le scelte di un piccolo gruppo di cacciatori di poltrone. Anche per noi la festa di nozze, di compleanno, di prima comunione…, quindi, non può limitarsi a essere una vetrina sociale. Gesù interroga ciascuno di noi: chi c’è sulla tua lista degli invitati alla festa della tua vita? Sei anche tu uno che cerca il primo posto per metterti in evidenza o sai stare dove la vita ti colloca? La risposta è personale.

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Domenica 21 agosto 2022 - 21 C (Lc 12,22-30)

Alla domanda di un tale: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?», Gesù non risponde dicendo che sono pochi e tanti, ma rivela il criterio della salvezza. A suo avviso discutere sul numero dei salvati non porta da nessuna parte. Discutere sulla pelle degli altri, sulla salvezza degli altri, dando per scontata la nostra, non serve. Anzi, la domanda vuol verificare se la strada che si sta percorrendo è quella giusta. Ma Gesù risponde: “sforzatevi, lottate, fare a gara a entrare per la porta stretta”. In che senso è stretta? Perché restringe la possibilità di salvezza?

Alla domanda di un tale: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?», Gesù non risponde dicendo che sono pochi e tanti, ma rivela il criterio della salvezza. A suo avviso discutere sul numero dei salvati non porta da nessuna parte. Discutere sulla pelle degli altri, sulla salvezza degli altri, dando per scontata la nostra, non serve. Anzi, la domanda vuol verificare se la strada che si sta percorrendo è quella giusta. Ma Gesù risponde: “sforzatevi, lottate, fare a gara a entrare per la porta stretta”. In che senso è stretta? Perché restringe la possibilità di salvezza? Se per noi la porta stretta richiama una porta scomoda, al tempo di Gesù l’immagine era più familiare, perché al calare del sole, per motivi di sicurezza, venivano chiuse le porte della città e dei grandi palazzi. Rimaneva aperta solo una porticina e se volevi entrare dovevi passare per quella. Ascoltando la parabola ci prende una sottile angoscia quando, accalcati a quella porta stretta, ci sentiamo dire dal padrone: «Non vi conosco». E noi: tutta la vita a cercarti e ora sei tu che prendi le distanze? Egli non ci riconosce perché facciamo cose per lui, ma perché con Lui e come Lui facciamo cose per gli altri. Se il criterio è la pratica della giustizia tutti possono entrare, arrivando da oriente e da occidente, dal nord e dal sud del mondo.

Come fare per essere riconosciuti dal Signore? Il rischio è che dica anche a noi: «Non vi conosco!». E noi a dire: siamo sempre venuti in chiesa, abbiamo ascoltato il Vangelo, abbiamo ricevuto tutti i sacramenti previsti, eravamo in piazza nei grandi raduni ad ascoltarti, abbiamo girato tanti santuari e tu ci dici che abbiamo delle false credenziali per entrare dalla porta della salvezza. Perché non si apre quella porta, perché quel duro “non vi conosco”? Non è la prima volta, poi, che i cristiani si sentono dire: vanno in chiesa e fuori sono peggio degli altri! Il marchio di “cattolico” può addirittura essere sospetto, un alibi. Bisogna verificare quanto è solo religione e quanto è vera fede. La semplice religione consiste nel modellare Dio a nostra misura, vera fede è lasciarsi modellare da Lui. Per la porta larga vuole passare chi crede di avere già addosso l’odore di Dio, immerso tra incensi, riti, preghiere, e di questo si vanta. Chi entra per la porta stretta, invece, ha addosso l’odore della famiglia, il grembiule del servizio, la pazienza del cuore buono. Dio ci riconosce quando le nostre mani praticano la giustizia, per accogliere chi ha sbagliato, per medicare chi è ferito, per ospitare chi scappa dalla guerra, chi fugge dalla fame, chi smonta dal barcone. Dovendo passare uno alla volta dalla porta stretta, ci è richiesta una decisione personale e consapevole, che nessun altro può prendere al nostro posto.

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