Domenica 4 luglio 2021 - 14 - B (Mc 6,1-6)
Nel vangelo si racconta di due tipi di meraviglia. Da un lato c’è la sorpresa della gente di Nazareth perché il loro compaesano parla in modo strano, dall’altro c’è lo stupore di Gesù per la loro incredulità. Nell’ascoltarlo la sua gente è meravigliata per ciò che fa e dice: mette la persone prima della legge, non chiede sacrifici ma sacrifica se stesso, usa misericordia con tutti…. Ma proprio queste persone stupite passano in fretta dall’entusiasmo, alla diffidenza e al rifiuto.
Nel vangelo si racconta di due tipi di meraviglia. Da un lato c’è la sorpresa della gente di Nazareth perché il loro compaesano parla in modo strano, dall’altro c’è lo stupore di Gesù per la loro incredulità. Nell’ascoltarlo la sua gente è meravigliata per ciò che fa e dice: mette la persone prima della legge, non chiede sacrifici ma sacrifica se stesso, usa misericordia con tutti…. Ma proprio queste persone stupite passano in fretta dall’entusiasmo, alla diffidenza e al rifiuto. E si dicono tra loro: No, stiamo scherzando? Non può essere lui il Messia! Non è il figlio del falegname? Lo conosciamo bene, è un vicino di casa, non ha cultura e titoli particolari, le sue mani sono segnate dalla bottega di falegnameria in cui è cresciuto, non ha nulla di divino… «E si scandalizzavano di lui», dice l’evangelista. Che cosa li scandalizza? È la sua umanità, la sua vicinanza, la sua umiltà. Dio non può avere un volto d’uomo! Nello stesso tempo anche Gesù è «stupito» per la loro incredulità, perché vorrebbero un profeta come loro se lo immaginano, secondo i loro schemi, un Dio preconfezionato a loro uso e consumo.
In realtà la gente di Nazareth si comporta come noi che fatichiamo a credere in un Dio che capita nelle nostre giornate, che entra nella nostra famiglia, che si mostra nella casa del vicino. Anche noi siamo scandalizzati dalla sua umiltà, dal suo venire mescolato alle persone di tutti i giorni, dal darci notizie di lui attraverso quelli che da sempre conosciamo, quelli di cui conosciamo i difetti uno per uno. Vorremmo un Dio che parla di cielo, un Dio religioso, ecclesiastico e invece lui si rivolge a noi con parabole laiche, che tutti possono capire, dove un seme, un germoglio, un fico a primavera diventano figure di una rivelazione. Usa linguaggi e immagini che vengono dalla casa, dalla terra, dall’orto, dal lago… parole di tutti i giorni. Eppure non tutti capiscono. Anzi capiscono meno quelli che si sentono già santi. Non dimentichiamo mai che Gesù non fu ucciso dagli atei, ma dalle persone super-religiose! Anche se rifiutato Gesù non si scoraggia per un fallimento, ma «stupito» reagisce continuando a guarire. Dio non è stanco di noi: è solo «sorpreso». Perché chi ama non è stanco, ma solo «stupito»: non nutre rancori, ma coltiva la gioia di continuare ad amare senza un ritorno. Gesù invita i suoi compaesani di Nazareth e noi oggi a guardarci dentro senza avere paura della nostre contraddizioni, delle nostre ambiguità, dei nostri limiti. E se troviamo qualcuno che della vita ha capito tutto, qualcuno che ha in tasca tutte le risposte, a nome di Gesù, salutatelo gentilmente e cambiate strada.
Domenica 27 giugno 2021 - 13 - B (Mc 5,21-43)
Nel vangelo si intrecciano due incontri in cui le protagoniste sono due donne. Entrambe sono chiamate figlie e le accomuna il numero 12: la figlia di Giairo ha dodici anni e sta morendo, una donna da dodici anni ha perdite di sangue. Tutte e due cercano la vita e la incontrano in Gesù.
Nel vangelo si intrecciano due incontri in cui le protagoniste sono due donne. Entrambe sono chiamate figlie e le accomuna il numero 12: la figlia di Giairo ha dodici anni e sta morendo, una donna da dodici anni ha perdite di sangue. Tutte e due cercano la vita e la incontrano in Gesù. Giairo, capo della sinagoga, diremmo noi oggi è uno di chiesa, un uomo di fede, eppure davanti alla sofferenza della figlia la sua fede entra in crisi. Gesù interrompe quello che sta facendo, va verso la sua casa dove la bambina è già morta: le va vicino, la prende per mano e dice: «La bambina non è morta, ma dorme… Dico a te: alzati!». E lo deridevano. Ci sta forse prendendo in giro? Probabilmente è la stessa derisione con cui dicono anche a noi cristiani: tu credi nella vita dopo la morte? Ti sbagli, ti imbrogli: dopo la morte non c’è niente. Per strada il corteo di gente è interrotto da una donna che avendo emorragie da molti anni le regole religiose la considerano impura. Non ha il coraggio di chiedere aiuto, ma tocca il mantello di Gesù, con lo sguardo imbarazzato dei presenti, perché toccare un altro vuol dire trasmettere impurità. Ma è proprio vero che l’impurità è la situazione di una persona che non è degna di stare con gli altri e con Dio? Gesù è venuto proprio per far cadere questi muri costruiti dagli uomini!
Le azioni di Gesù sono unite tra loro dal gesto del toccare. Egli è toccato da una donna che perde sangue e tocca il corpo morto di una bambina. Gesù non teme di toccare e di farsi toccare. Non ha paura di diventare impuro, ma al contrario mostra che Dio cerca e tocca le ferite. L’incontro di Gesù con la donna che perde sangue ci sta dicendo che la vita se ne va, la gioia di vivere si spegne. come in una emorragia inarrestabile, se non tocchiamo la possibilità di essere amati e di amare. La vita “dorme” se nessuno ci risveglia con la sua voce attenta e con una mano rassicurante ci fa uscire dalla prigione delle nostre paure. La donna emorroissa aveva cercato tanti medici, tante terapie, ma tutti avevano pensato solo alla sua malattia. Gesù, invece, si interessa alla sua persona. Non c’è guarigione se ci affidiamo soltanto alle medicine e dimentichiamo di toccare le persone con un’attenzione, una parola, un saluto. Di fronte alla fanciulla morta Gesù ci dice che chi si fida di lui guarisce, che bisogna toccare la disperazione delle persone per poterle rialzare. Accade che tante persone provano ad avvicinarsi alla comunità cristiana per toccare Gesù, con la speranza di un messaggio di vita e invece trovano dei distributori di regole, degli addetti al culto, dei ripetitori di un disco noto e astratto. In realtà il Signore è sempre una mano tesa, non un dito puntato, una mano che ti afferra e una parola che ti dice talità kum: bambino alzati, bambina mettiti in piedi!
Domenica 20 giugno 2021 - 12 – B (Mc 4,35-41)
La tempesta dei problemi ci fa paura, il vento contrario ci crea ansia, la barca del mondo sta per affondare e Gesù dorme. È l’esperienza dei discepoli, ma anche la nostra quando abbiamo l’impressione che Gesù, sulla barca della nostra vita, dorma un sonno profondo. Siamo sul lago di Genezaret a 200m sotto il livello del mare e gli arabi lo chiamano Ajn Allah (l’occhio di Dio). Di solito è un lago tranquillo, ma all’improvviso, dopo giornate calde, si sollevano onde così alte che a fatica una barca torna a riva. Con la stessa rapidità, poi, il lago torna tranquillo. Probabilmente si tratta di un’esperienza vissuta più volte dai discepoli pescatori. Ma, in questa occasione, sulla barca c’è anche Gesù che dorme.
La tempesta dei problemi ci fa paura, il vento contrario ci crea ansia, la barca del mondo sta per affondare e Gesù dorme. È l’esperienza dei discepoli, ma anche la nostra quando abbiamo l’impressione che Gesù, sulla barca della nostra vita, dorma un sonno profondo. Siamo sul lago di Genezaret a 200m sotto il livello del mare e gli arabi lo chiamano Ajn Allah (l’occhio di Dio). Di solito è un lago tranquillo, ma all’improvviso, dopo giornate calde, si sollevano onde così alte che a fatica una barca torna a riva. Con la stessa rapidità, poi, il lago torna tranquillo. Probabilmente si tratta di un’esperienza vissuta più volte dai discepoli pescatori. Ma, in questa occasione, sulla barca c’è anche Gesù che dorme. L’ironia vuole che pescatori esperti di acque agitate, per non affondare chiedono aiuto a un falegname. Svegliato Gesù parla loro dicendo «Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?». Parla poi al lago come fosse la cosa più normale: «Taci! Calmati!». Quindi l’invito: «Passiamo all’altra riva». Non dice troviamo un posto sicuro, ma affrontiamo la notte!
Troppo spesso la religione è stata pensata come un modo per controllare la paura, ma Dio non vuole giocare a questo gioco! Noi vorremmo un dio sveglio che agisce come un mago, magari sollecitato da qualche candela accesa, perché di un dio che dorme non sappiamo che cosa farcene. In realtà Egli è presente, non come vorremmo noi, ma come vuole lui: è sulla nostra barca insieme a tutta la nostra libertà. Non interviene al posto nostro, ma insieme a noi. Talvolta vorremmo che il Signore gridasse subito agli uragani della vita: Fate silenzio. State calmi! E lui: «non avete ancora fede?» Avere fede significa anche essere padroni dei propri pensieri, vuol dire poter dire a quelli negativi: Smettetela, fate silenzio! Vorremmo essere esonerati dall’affrontare la notte, ma Dio risponde dandoci la forza per attraversarla. Egli ci ripete: passiamo all’altra riva, cioè affrontiamo la notte. E noi: ma è tempesta! Da qui nasce la paura di morire: «Maestro, non t’importa che noi moriamo?». Noi non sappiamo perché si alzano tempeste nella vita, sappiamo solo che non possiamo evitarle. Vorremmo un cielo sempre sereno, non perché cala il vento, ma perché finiscono i problemi. In realtà il Signore sta nelle braccia del rematore, nella presa sicura di chi tiene il timone, nelle mani che svuotano l’acqua, negli occhi che scrutano l’altra sponda,… come quelli delle persone che tentano di passare all’altra riva del mare Mediterraneo. A noi invece pare di essere abbandonati non appena si alza il vento di una malattia, di una crisi familiare, di relazioni ferite, il vento contrario di questa pandemia. In verità Egli ci rende capaci di attraversare il mare della nostra vita in tempesta. Come non ha salvato il Figlio dalla croce, ma nella croce, così oggi salva noi, nella barca della nostra vita, non dalla sofferenza, ma nella sofferenza.
Domenica 13 maggio 2021 - 11 – B (Mc 4,26-34)
Con due piccole parabole per dire il Regno di Dio, Gesù è capace di parlare delle cose più grandi con una semplicità disarmante. La prima parabola dice la forza del seme: una volta gettato nella terra, sia che il contadino dorma o sia sveglio, il seme germoglia e cresce. Tutto ciò che è vita ha bisogno di tempo per giungere a maturazione: nove mesi per un bambino, l’inverno prima della primavera, la lievitazione per il pane...
Domenica 13 maggio 2021 - 11 – B (Mc 4,26-34)
Con due piccole parabole per dire il Regno di Dio, Gesù è capace di parlare delle cose più grandi con una semplicità disarmante. La prima parabola dice la forza del seme: una volta gettato nella terra, sia che il contadino dorma o sia sveglio, il seme germoglia e cresce. Tutto ciò che è vita ha bisogno di tempo per giungere a maturazione: nove mesi per un bambino, l’inverno prima della primavera, la lievitazione per il pane... Anche l’educazione dei figli ha bisogno di tempo. Spesso abbiamo l’impressione che non succeda nulla, al punto che ci scoraggiamo. Accade che guardando una pianta la sera non vediamo nulla e al mattino ecco un fiore. È bello sapere che Dio fa fiorire ogni realtà per una misteriosa forza interna. Dio è all’opera in tutte le persone, nonostante le nostre perplessità. Gesù con la sua parola ci libera dall’ansia della prestazione: a noi spetta solo il compito di seminare bene. Non siamo padroni della vita degli altri. Come il contadino, pur non vedendo nulla, sa che in modo nascosto sta germogliando la vita, così ogni genitore e ogni educatore, pur non vedendo con i propri occhi la crescita delle persone che gli sono affidate, sa che una forza interna è al lavoro.
La seconda parabola del granello di senape dice la sproporzione: un piccolissimo seme dà vita a un grande albero. Il profeta Ezechiele pensava il regno di Dio come un grande cedro, il re degli alberi: qualcosa di maestoso. Gesù capovolge questa idea di Regno di Dio e lo paragona al più piccolo di tutti i semi che tra l’altro, lo sapevano bene i palestinesi di allora, cresce dappertutto. Non c’è terreno in cui la senape non cresca! È un seme piccolissimo che cresce tra le fessure dei muri delle case, spunta con pochissima terra sopra i tetti, attecchisce lungo le strade. Gesù ci vuole dire che l’azione di Dio non è spettacolare e può arrivare dove noi non la aspettiamo. Il suo regno non edifica palazzi, ma si costruisce su una pietra scartata dai costruttori. Il Figlio di Dio nasce nell’insignificante villaggio di Betlemme; dodici discepoli inesperti hanno iniziato a evangelizzare il mondo; madre Teresa, la piccola suora albanese, ha segnato le strade di Calcutta con il vangelo dell’amore. A noi il compito di gettare il seme, il resto non dipende da noi. Quando ci capita di voler controllare tutto e poi di star male perché non ci riusciamo, forse è perché siamo convinti che tutto dipende sempre da noi. In questa domenica non posso non pensare che la vita di Saman, la ragazza pakistana che con ogni probabilità è stata sepolta nella terra, diventi un seme che fa germogliare un rinnovato rispetto per la vita, che fa scaturire una condanna per i matrimoni combinati, che fa fiorire nuova umanità. Continuiamo a gettare la semente del vangelo: Lui farà il resto
Domenica 6 giugno 2021 - Corpo e sangue di Cristo – B (Mc 14,12-16.22.26)
Nella cornice di una cena Gesù ci dice una grande novità: Dio non pretende che l’uomo lo cerchi, ma è Lui a cercarlo per primo. È la novità di un Dio che non spezza nessuno, ma spezza se stesso; un Dio che non chiede sacrifici, ma sacrifica se stesso; un Dio che non domanda l’offerta per restare buono, ma che si offre per trasformarci in persone buone.
Nella cornice di una cena Gesù ci dice una grande novità: Dio non pretende che l’uomo lo cerchi, ma è Lui a cercarlo per primo. È la novità di un Dio che non spezza nessuno, ma spezza se stesso; un Dio che non chiede sacrifici, ma sacrifica se stesso; un Dio che non domanda l’offerta per restare buono, ma che si offre per trasformarci in persone buone. Gesù condivideva il cibo e mangiava con tutti: con gli esattori delle tasse, cioè la guardia di finanza del tempo; con i pubblicani e i peccatori che tutti conoscevano per le loro contraddizioni; con i farisei che tutti sapevano incoerenti, con i lebbrosi da cui bisognava stare lontano. I suoi pranzi e cene non erano per i perfetti, ma per quelli che tutti rifiutavano e che nessuno amava. L’eucaristia non è un incontro esclusivo di persone in grazia di Dio, ma di chi si sente bisognoso. Nel corso dei secoli l’abbiamo fatta diventare la cena dei puri. In realtà è l’incontro dei mendicanti, non dei giusti. È l’appuntamento per imparare, come Gesù, a sedere a mensa con chi consideriamo sbagliato, con il parente che ci ha ferito, con chi secondo noi non se lo merita. Il paradosso dell’eucaristia consiste nel fatto che il dono arriva prima del pentimento dell’altro. Giuda lo sa bene, perché sperimenta di essere amato prima di rendersi conto di aver sbagliato.
Quando Gesù dice prendete questo corpo intende dire: fate vostro il mio modo di stare la mondo. Egli non chiede ai discepoli di adorare, di contemplare, di pregare quel Pane, ma prima ancora di «prendere»: di prendere il suo corpo, di fare proprio il suo stile di vita. Amare un pezzo di pane risulta facile, ma amare le persone è un’altra cosa. Credere che dietro certi volti ci sia il volto di Dio è decisamente impegnativo. Madre Teresa diceva: «Mi è difficile credere che la gente possa vedere il Corpo di Cristo in un pezzo di pane e non lo possa vedere nelle persone, negli uomini, nei volti». Eppure è questa la scommessa. Ci sono cristiani che fanno la comunione, ma poi la rompono con le persone, cristiani che prendono l’eucaristia, ma poi prendono le distanze da chi ha bisogno, cristiani che adorano l’eucaristia e disprezzano chi sbaglia, cristiani che si inginocchiano davanti all’ostia consacrata e tirano dritto davanti a chi il mondo ha sconsacrato... C’è qualcosa di peggio che non credere alla presenza reale dell’eucaristia ed è credere a una presenza reale, così tranquillizzante, che non ci porta a perdere la nostra vita, il nostro tempo, le nostre energie per gli altri. Gesù ci sta dicendo che fare eucaristia è fare come Lui: prenderci cura delle ferite degli altri, l’unica maniera per rimarginare le nostre piaghe.
Domenica 30 maggio 2021 - Trinità - B (Mt 28,16-20)
Celebriamo oggi la solennità della Trinità. In realtà nella Bibbia non esiste nessuna formula della Trinità come Padre, Figlio, Spirito Santo. Nella dottrina ufficiale della chiesa la Trinità si è affermata come dogma nel quarto secolo con il Concilio di Costantinopoli (381). Spiegare la Trinità è qualcosa come voler spiegare il motivo per cui una persona ama un’altra. Possiamo dare tante definizioni dell’amore, ma lo comprendiamo solo quando ne facciamo l’esperienza. Dal momento che Dio è amore, le cose di Dio si comprendono amando.
Celebriamo oggi la solennità della Trinità. In realtà nella Bibbia non esiste nessuna formula della Trinità come Padre, Figlio, Spirito Santo. Nella dottrina ufficiale della chiesa la Trinità si è affermata come dogma nel quarto secolo con il Concilio di Costantinopoli (381). Spiegare la Trinità è qualcosa come voler spiegare il motivo per cui una persona ama un’altra. Possiamo dare tante definizioni dell’amore, ma lo comprendiamo solo quando ne facciamo l’esperienza. Dal momento che Dio è amore, le cose di Dio si comprendono amando. Il regista polacco Kieslowski, nel film Decalogo, il bambino protagonista che gioca col computer, a un certo punto chiede alla zia: «Com’è Dio?». La zia lo guarda in silenzio, gli si avvicina, lo abbraccia, gli bacia i capelli e tenendolo stretto a sé dice sottovoce: «Come ti senti, ora?». Il bambino alza gli occhi e risponde: «Bene, mi sento bene». E la zia: «Ecco, Dio è così». Dio è un abbraccio: ecco la Trinità. Oggi è la festa di un Dio che è relazione, compagnia, realtà viva. È un Dio famiglia nel senso che le diversità dei componenti dice l’unità senza fondersi, senza annullarsi. Anche noi siamo in rapporto alla Trinità: persone uguali e distinte. Ogni uomo ha il suo volto e la sua storia, i suoi desideri e le sue stanchezze, le sue ambizioni e le sue ansie. In tutto questo siamo uguali, ma anche non identici.
Il vangelo non ci dà una definizione della Trinità, ma ci racconta l’ultima missione affidata agli apostoli quando Gesù li manda dicendo loro: «Battezzate nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». “Battezzare” letteralmente significa “immergere”. A noi è chiesto di immergere nell’amore le persone che incontriamo. I nostri legami, gli abbracci, gli affetti, le parole, il silenzio, il perdono… tutto questo significa battezzare le persone. Può accadere che la sera della nostra giornata non abbiamo mai pensato a Dio, mai pronunciato il suo nome, ma se abbiamo creato relazioni buone, se abbiamo regalato gioia o speranza a una persona, abbiamo fatto la più bella professione di fede nella Trinità. Al contrario chi ripete a memoria tante volte il nome di Dio senza mai creare relazioni buone, senza mai tendere la mano a chi ha bisogno, rischia di negare quel Dio che ripete a parole. Gesù, come discepoli, ci invita anche a «insegnare, a osservare tutto ciò che ci ha comandato». Non si tratta di far conoscere un catechismo, ma letteralmente “in-segnare” significa “lasciare un segno”. L’appello di Gesù è di lasciare nelle persone che incontriamo un segno dell’amore, un segno di come lui ci ama. Questo è il segno che dobbiamo lasciare nelle nostre relazioni! La Trinità, come relazione di amore, ci descrive un cristianesimo che non cerca miracoli a buon mercato, ma il miracolo di chi amando fa star bene le persone.
Domenica 23 maggio 2021 - Pentecoste B (Gv 15,26-27; 16,12-15)
La Pentecoste, come dice la parola, celebra cinquanta giorni dalla Pasqua. È finito il tempo del Gesù della storia, della sua morte, della sua risurrezione, delle sue apparizioni e inizia il tempo della chiesa. Asceso al cielo Gesù chiede ai discepoli di continuare ad annunciare la bella notizia di un Dio che ama l’uomo. Ma gli apostoli scoraggiati, impauriti, delusi, si chiedono: E ora che si fa? È la domanda che ritorna in tante nostre situazioni, quando abbiamo bisogno di aiuto, di protezione, di amore. Pentecoste è fidarsi di Gesù che ci dice: Uscite, non abbia paura, ora non dovete amare, ma potete amare grazie alla forza dello Spirito. Che cos’è, Chi è lo Spirito Santo, questo misterioso Paraclito promesso come dono dal Risorto? Nella Bibbia indica molte cose: è Colui che soffia, vivifica, bagna, lava, rialza, raddrizza, consola… Giovanni ci ricorda che lo Spirito è il Paraclito, cioè l’avvocato, il difensore, chi sta dalla nostra parte, chi ci protegge, ci libera.
La Pentecoste, come dice la parola, celebra cinquanta giorni dalla Pasqua. È finito il tempo del Gesù della storia, della sua morte, della sua risurrezione, delle sue apparizioni e inizia il tempo della chiesa. Asceso al cielo Gesù chiede ai discepoli di continuare ad annunciare la bella notizia di un Dio che ama l’uomo. Ma gli apostoli scoraggiati, impauriti, delusi, si chiedono: E ora che si fa? È la domanda che ritorna in tante nostre situazioni, quando abbiamo bisogno di aiuto, di protezione, di amore. Pentecoste è fidarsi di Gesù che ci dice: Uscite, non abbia paura, ora non dovete amare, ma potete amare grazie alla forza dello Spirito. Che cos’è, Chi è lo Spirito Santo, questo misterioso Paraclito promesso come dono dal Risorto? Nella Bibbia indica molte cose: è Colui che soffia, vivifica, bagna, lava, rialza, raddrizza, consola… Giovanni ci ricorda che lo Spirito è il Paraclito, cioè l’avvocato, il difensore, chi sta dalla nostra parte, chi ci protegge, ci libera. Nella Bibbia lo abbiamo conosciuto anche nel libro di Giobbe, quando sul suo mucchio di letame invoca un avvocato che lo possa difendere da Dio stesso, che lo aveva umiliato pur essendo innocente. Giobbe ci dice che l’invocazione dello Spirito è spesso l’ultima risorsa dei poveri, di chi sa di essere innocente e si sente abbandonato da tutti, persino da Dio, ma non dal suo Spirito.
Anche oggi, come Gesù sulla croce, sono molti coloro che gridano l’abbandono di Dio e che sperimentano di essere difesi dallo Spirito: colui che rimette in piedi, che fa risorgere. Quanto bisogno c’è di vento forte nelle nostre chiese! Un vento che offra alle nostre comunità l’ossigeno del vangelo. La chiesa non è una passerella della moda, non è lo spazio di coloro che vanno a far bella mostra di sé in vista delle elezioni, non è un museo al quale per ammirarepezzidel passato. Una delle doti dello Spirito di Dio è di non farsi riconoscere: cambia il mondo in silenzio senza dircelo. Se la mattina riusciamo ad alzarci, quando la notte precedente pensavamo di non farcela più, è perché ilparaclitoci ha tenuti in vita. Egli soffia sulle nostre ferite che bruciano, bacia le botte della vita che ci fanno sanguinare, asciuga le nostre lacrime perché sono sacre, raddrizza ciò che è corrotto, bagna il nostro cuore assetato di serenità, lava i nostri pensieri maligni, tiene viva la speranza perché sia l’ultima a morire. Questo Spirito è ilpadre dei poveri!Soffia sui cuori feriti, sulle carceri, sui centri di prima accoglienza, sulle corsie delle terapie intensive, sulla case dei poveri, sul volto dei bambini che cercano cibo nei cassonetti e nelle discariche... Pentecoste è la festa che ridà respiro a chi non ha più fiato e tra questi, talvolta, ci siamo anche noi chiamati a ringraziare.
Domenica 16 maggio 2021 - Ascensione – B (Mc 16,15-20)
Nel Simbolo degli Apostoli noi diciamo «Credo in Gesù Cristo, salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente». Molti popoli nell’antichità hanno segnato la vita dei loro eroi con la visione di una ascensione in cielo. I greci credevano al rapimento in cielo dell’eroe solare Eràcle, i romani credevano che Romolo, fondatore della città di Roma, fosse salito al cielo tra lampi e tuoni. Anche i cristiani hanno il cosiddetto “eroe” Gesù e affermano la sua ascensione in cielo. Cosa hanno in comune questi tre personaggi? Anche Gesù deve essere riconosciuto come l’eroe, il liberatore dei cristiani? La chiesa primitiva non racconta l’ascensione di Gesù come eroe, ma come antieroe. L’uomo non è chiamato a scalare il cielo, ma a porsi nella pianura della sua umanità, perché in questo spazio ciascuno incontra la bontà di Dio. Il racconto dell’ascensione ci dice che non dobbiamo dare l’assalto al cielo per acquistare dignità, perché siamo figli di Dio, creature amate. Ogni dono non va conquistato, ma ci è dato per grazia. L’ascensione al cielo dice due partenze: quella di Gesù che va verso il Padre e quella degli apostoli che sono mandati nel mondo per annunciare la bella notizia.
Gesù manda anche noi e fa una promessa: chi annuncia il Vangelo è accompagnato da “segni” che rendono credibile l’annuncio. Innanzitutto ci è dato di cacciare i demoni, cioè di avere potere sulle forze diaboliche: di mandar via il diavolo dell’angoscia, del rancore, della disperazione. Inoltre ci è concesso di parlare lingue nuove: di dire bene degli altri, degli stranieri, di chi non lo merita. Chi parla la lingua nuova della comprensione, del perdono, dell’amore, sta annunciando il Vangelo. Non solo, ma l’annunciatore può prendere in mano i serpenti, cioè guardare in faccia le sue paure, i suoi sensi di colpa, il rimorso che gli toglie il sonno. Può dominare anche il veleno, per dire che se un tempo veniva usato per far morire i nemici, ora non c’è nessun veleno che possa far morire il testimone di Cristo durante la persecuzione. Infine grazie all’imposizione delle mani è possibile guarire altri. Non si tratta di avere un fluido particolare, un magnetismo specifico, ma è un segno per trasmettere qualcosa di se stessi. Il riferimento non è soltanto al toccare fisico, ma al toccare in senso più ampio. A tutti è capitato di toccare una persona con una parola, di toccarla con uno sguardo, di toccarla con un gesto… Sono molti i modi con i quali possiamo guarire. Noi cristiani non siamo semplici ammiratori di Gesù, spettatori delle sue azioni, ma chiamati ad annunciare la sua Parola toccando le ferite di altri perché trovino guarigione.
Domenica 9 maggio 2021 - 6 di Pasqua – B (Gv 15,9-17)
La vigna di Dio, di cui parla l’evangelista Giovanni, non può essere un vigneto decorativo, ma deve fare molto frutto. Questo frutto non è la semplice opera buona, ma è l’amore. La bella notizia è questa: tu sei amato gratis. Ogni creatura non respira solo aria, ma respira anche amore: se questo respiro cessa, non vive. Il sentirsi amati, infatti, genera la capacità di amare. Chi non ha sperimentato su di sé il sapore dell’amore, non può condividerlo con altri. Gesù domandandoci di abitare in Lui, non ci chiede semplicemente di volere il bene, sarebbe puro sentimentalismo. Egli ci domanda di amare come Lui ci ama. Non dice amate quanto me, ma come me.
Domenica 9 maggio 2021 - 6 di Pasqua – B (Gv 15,9-17)
La vigna di Dio, di cui parla l’evangelista Giovanni, non può essere un vigneto decorativo, ma deve fare molto frutto. Questo frutto non è la semplice opera buona, ma è l’amore. La bella notizia è questa: tu sei amato gratis. Ogni creatura non respira solo aria, ma respira anche amore: se questo respiro cessa, non vive. Il sentirsi amati, infatti, genera la capacità di amare. Chi non ha sperimentato su di sé il sapore dell’amore, non può condividerlo con altri. Gesù domandandoci di abitare in Lui, non ci chiede semplicemente di volere il bene, sarebbe puro sentimentalismo. Egli ci domanda di amare come Lui ci ama. Non dice amate quanto me, ma come me. È questo “come” che ci mette in difficoltà, perché Lui ha amato dando la vita. Dare la vita non è sacrificarsi, privarsi, mortificarsi, ma esprimere il meglio di noi stessi proprio quando sembra che stiamo rinunciando a noi stessi. Se non amiamo ci distruggiamo! Gesù ci insegna che l’amore è vero quando dona e chi vive così non teme di chiamarlo amico suo. La comunità dei cristiani non è un vigneto che fa da ornamento al paesaggio dove si vive, non si esibisce in piazza, ma si fa riconoscere dalla qualità del suo frutto, dalla sua capacità di amare.
Noi talvolta si illudiamo di saper amare e di non aver più bisogno di imparare. Gesù ci ha amati non rimanendo al proprio posto, ma facendosi servo di tutti. Noi vorremmo amare restando al nostro posto, senza scomodarci o privarci di nessuna delle cose cui siamo attaccati. Vorremmo essere noi a decidere chi dobbiamo amare, chi è degno del nostro interessamento e chi invece non lo merita. Gesù non sceglie il prossimo, ma si fa prossimo di tutti. Lui non solo saluta le persone per la strada, ma si ferma, ascolta, si commuove, tocca le ferite e le porta insieme. Non dà cose, ma se stesso. Quanti figli attendono oggi una parola, un ascolto, un’attenzione e al loro posto ricevono cose, un regalo, una mancia! L’ebreo Martin Buber, in un racconto chassidico, diceva che Rabbi Moshe Leib di Sassow narrava: «Come bisogna amare gli uomini l’ho imparato da un contadino. Questi sedeva in un’osteria con altri contadini e beveva. Tacque a lungo come tutti gli altri, ma quando il cuore fu mosso dal vino, si rivolse al suo vicino dicendo “Dimmi tu, mi ami o non mi ami?”. Quello rispose “Io ti amo molto”. Ma egli disse ancora “Tu dici: io ti amo e non sai cosa mi addolora. Se tu mi amassi veramente lo sapresti”. L’altro non seppe rispondere e anche il contadino che aveva fatto la domanda fece silenzio. Ma io capii: questo è l’amore per gli uomini, sentire di che cosa hanno bisogno e portare la loro pena». Non esiste traccia di amore se non si conosce e si condivide la sofferenza dell’altro!
Domenica 2 maggio 2021 - 5 di Pasqua – B (Gv 15,1-8)
Il testo del vangelo parla di noi, del nostro rapporto intimo con Gesù. Per raccontare questo rapporto Gesù dice: io sono la vite, voi i tralci. La nostra vita si svolge nel campo di Dio, che è più vasto del terreno del cristianesimo. Nel campo del mondo Dio pianta tante viti e i tralci possono produrre alla sola condizione di restare uniti alla pianta. Come la vite alimenta il tralcio, così Dio è già presente nell’uomo, non come padrone, ma come linfa vitale. Gesù, che è la vite, fa arrivare la linfa del suo amore verso tutti i tralci, nessuno escluso. Egli la invia verso l’ultimo mio tralcio, verso l’ultima mia gemma, che io dorma o vegli, che io sia praticante o meno.
Il testo del vangelo parla di noi, del nostro rapporto intimo con Gesù. Per raccontare questo rapporto Gesù dice: io sono la vite, voi i tralci. La nostra vita si svolge nel campo di Dio, che è più vasto del terreno del cristianesimo. Nel campo del mondo Dio pianta tante viti e i tralci possono produrre alla sola condizione di restare uniti alla pianta. Come la vite alimenta il tralcio, così Dio è già presente nell’uomo, non come padrone, ma come linfa vitale. Gesù, che è la vite, fa arrivare la linfa del suo amore verso tutti i tralci, nessuno escluso. Egli la invia verso l’ultimo mio tralcio, verso l’ultima mia gemma, che io dorma o vegli, che io sia praticante o meno. Tutti i tralci, che sono le persone, ricevono da questo Dio contadino la sua vita perché possano portare frutto. Tuttavia ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Lo sa bene ogni contadino che potare non è far morire, ma togliere alla pianta ciò che è superfluo per darle forza. Il tralcio potato mostra sulla punta una sorta di lacrima, quasi a dire che la vite va’ in amore. Non manca in Gesù una severa parola di giudizio: se il mio, il tuo, i nostri tralci di praticanti domenicali non portano frutto… Dio può servirsi di altri tralci!
Due sono le parole centrali di Gesù: rimanete in me, per portare frutto. Il tralcio che siamo noi non si limita a stare soltanto vicino alla vite, ma vive se è innestato in essa, se rimane stabilmente nella vite, se si realizza un continuo passaggio della linfa. Con il trascorrere del tempo la prima comunità cristiana aveva dovuto constatare con tristezza che all’inizio alcuni avevano simpatizzato per Gesù di Nazareth, ma poi non avevano preso sul serio il suo messaggio. Questa potrebbe essere la situazione di oggi, dei cristiani che pensano di poter vivere con la linfa che hanno accumulato attraverso le tappe dei sacramenti e degli adempimenti cultuali. Alcuni, tuttavia, rischiano di diventare tralci secchi, privi di vita, mentre altri si ritengono talmente religiosi e tralci così fecondi da non aver più bisogno di essere potati dalla Parola maiuscola, per portare più frutto. Ogni domenica questa Parola pota i nostri tralci non fecondi. Potare da parte di Dio non vuol dire amputare, rubarci affetti, inviare sofferenze, ma dare forza: questa è la logica e il mistero della vita. Nella vita alcuni tagli ci distruggono, altri tirano fuori il meglio da noi. Gesù non ci dice che rimanere attaccati alla vite significa diventare famosi, fortunati, ricchi. La promessa è un’altra: porterete molto frutto. Spesso si tratta di frutti poco spettacolari, quotidiani, silenziosi, nelle sue mille versioni rivolte ai meno fortunati o ai più emarginati. Che cosa significa «rimanere in lui», lasciare che lui ci ami? Forse ci sta dicendo che prima ancora di amare altri, ci vuole un grande coraggio per lasciarci amare, per lasciare a Lui il timone della barca della nostra vita.
Domenica 25 aprile 2021 - 4 di Pasqua – B (Gv 10,11-18)
Gesù ha detto di se stesso: «Io sono il buon pastore… e do la mia vita per le pecore». Le pecore sono preziose per il pastore, perché rappresentano una fonte di guadagno: gli danno latte, lana, carne. Il pastore le sfrutta in molti sensi e fino in fondo. Per questo ci lascia un po’ perplessi che l’Antico Testamento parli di Dio come di un pastore e del popolo di Israele come di un gregge. E restiamo ancor più confusi nel vedere Gesù applica a se stesso l’immagine del pastore. Tuttavia nella Bibbia il rapporto pastore-pecora viene capovolto. Non si dice che la pecora è utile al pastore, ma si evidenzia l’attenzione e la cura del pastore per le pecore, che nel vangelo arriva a lasciare le novantanove per cercare quella smarrita. Se nella vita, con le sue leggi commerciali, il pastore conta più della pecora, nel messaggio biblico si dice il contrario: la pecora vale più del pastore. Se poi il pastore è Gesù, la pecora è così preziosa che per le pecore egli dà la sua vita. Per questo è il buon pastore!
Gesù ha detto di se stesso: «Io sono il buon pastore… e do la mia vita per le pecore». Le pecore sono preziose per il pastore, perché rappresentano una fonte di guadagno: gli danno latte, lana, carne. Il pastore le sfrutta in molti sensi e fino in fondo. Per questo ci lascia un po’ perplessi che l’Antico Testamento parli di Dio come di un pastore e del popolo di Israele come di un gregge. E restiamo ancor più confusi nel vedere Gesù applica a se stesso l’immagine del pastore. Tuttavia nella Bibbia il rapporto pastore-pecora viene capovolto. Non si dice che la pecora è utile al pastore, ma si evidenzia l’attenzione e la cura del pastore per le pecore, che nel vangelo arriva a lasciare le novantanove per cercare quella smarrita. Se nella vita, con le sue leggi commerciali, il pastore conta più della pecora, nel messaggio biblico si dice il contrario: la pecora vale più del pastore. Se poi il pastore è Gesù, la pecora è così preziosa che per le pecore egli dà la sua vita. Per questo è il buon pastore!
Nell’ambito sia politico, sia religioso i buoni “pastori” non sono mai stati una presenza scontata. Gli stessi profeti nella Bibbia lanciano accuse pesanti contro i cattivi pastori che pascolano se stessi e non si occupano del gregge. Sono pastori che pensano solo ai propri interessi e non si curano delle pecore fragili, sofferenti, ferite e disperse. Con amarezza occorre constatare e riconoscere che ci sono «pastori» ai quali «non importa delle pecore» (v. 13). Sono genitori, educatori, politici, preti, vescovi: pastori senza passione, senza il coraggio di sporcarsi le mani, di esporsi. Nell’ambito familiare sono «pastori» che si limitano a dire: i miei figli non si possono lamentare perché non gli faccio mancare nulla. Nell’ambito politico sono «pastori» che fingendo di pascolare il gregge, pascolano se stessi. Nell’ambito religioso sono «pastori» simili alle immaginette sacre, che puntano sulla bella immagine di se stessi, sul non deludere nessuno, sul sogno della carriera. Sono «pastori» che non osano nulla e si accontentano di curare gli ambiti rituali e l’appartenenza ecclesiale rassicurante. Ma perché si smorza la passione? Gesù risponde perché «io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me». Solo se si conosce la vita concreta delle persone, se si ascoltano le loro voci, se ci si lascia implicare nei loro vissuti, se si valorizza la loro esperienza e la loro saggezza, solo allora si diventa pastori che conoscono il gregge. Chi oggi non ascolta il grido delle donne violentate e uccise, degli stranieri che hanno trovato la tomba nelle acque del mar Mediterraneo, dei separati e dei divorziati che convivono con le loro ferite, dei tanti delusi dalla chiesa, non può diventare pastore che conosce il gregge. Se la Chiesa vive fuori dalla realtà e non tocca con mano i semi di vangelo che può cercare più nella strada che nelle canoniche, non potrà risvegliarsi dal sonno. Ne è testimone il buon pastore che non può star bene finché non sta bene ogni sua pecora, ogni suo figlio.
Domenica 18 aprile 20213 di Pasqua – B (Lc 24,35-48)
Ci sono degli incontri che davvero cambiano la vita. È quello che è successo a due discepoli di ritorno da Emmaus: «lungo la strada» hanno avuto un incontro che ha ridato speranza ai loro passi. Quei due ci assomigliano, sono davvero nostri fratelli, amici di tutti quelli che non sperano più. E raccontano che mentre camminavano con un passo triste e scambiando parole di delusione, in mezzo a loro si presenta uno che regala la pace. Quello che credono un fantasma è il Risorto, che per togliere il velo sulla sua persona mostra le ferite, mangia davanti a loro e li aiuta a superare l’ignoranza delle Scritture. In questo ci dice la strada per incontrarlo.
Ci sono degli incontri che davvero cambiano la vita. È quello che è successo a due discepoli di ritorno da Emmaus: «lungo la strada» hanno avuto un incontro che ha ridato speranza ai loro passi. Quei due ci assomigliano, sono davvero nostri fratelli, amici di tutti quelli che non sperano più. E raccontano che mentre camminavano con un passo triste e scambiando parole di delusione, in mezzo a loro si presenta uno che regala la pace. Quello che credono un fantasma è il Risorto, che per togliere il velo sulla sua persona mostra le ferite, mangia davanti a loro e li aiuta a superare l’ignoranza delle Scritture. In questo ci dice la strada per incontrarlo.
Il primo passo che il Vangelo ci suggerisce è di incontrare le proprie ferite. Il Risorto per rendersi credibile chiede di guardare dentro le sue ferite. Chi guarda la propria ferita vede quanto veramente vale, chi osserva la propria debolezza si rende conto della sua vera forza, chi mostra la sua fatica nel restare fedele alle sue croci, dice il suo amore per la sua vita e quella degli altri.
Il secondo passo è la strada dell’amicizia. Gesù risorto mangia con i discepoli. Davanti a una porzione di pesce arrostito mostra la sua amicizia, la confidenza di sempre. Mangiare è il segno della vita, farlo insieme è ritrovare dei legami, gustare che quel pesce non è più solo un pesce. Colpisce il lamento del Risorto quando dice: «Non sono un fantasma». Nel suo lamento così umano c’è dentro il suo desiderio di essere accolto come un amico. Non puoi, infatti, amare un amico come un fantasma. Può capitare anche a noi di trattare le persone come fantasmi, come problemi, come pratiche da sbrigare, come ricordi da cancellare.
Il terzo passo consiste nel superare la nostra ignoranza delle Scritture, che significa cogliere il senso delle stagioni che viviamo. Abbiamo bisogno di comprendere la nostra storia, il filo rosso che lega i nostri giorni e le nostre scelte, il cordone che tiene uniti i nonni e i nipoti, il filo che collega la stagione del Covid-19 alle altre stagioni. Per comprendere, tuttavia, occorre aprire la mente, tornare a quel Vangelo che riscalda il cuore, che appassiona per le cose vere. Gesù risorto ci dice: «Io ho carne e ossa», la mia carne è l’umanità delle persone. È come se dicesse: non accontentatevi dei segni di croce e dell’adorazione, se poi non nasce dentro di voi un serio impegno per offrire bende a chi è ferito, pane a chi ha fame, legalità a chi subisce lacrime di mafiosità e di umiliazione. Perciò a chi è per strada e ti cerca mostrati Signore, cammina insieme a tutti i disperati sulle strade dell’Emmaus di oggi. Non offenderti se non ti riconoscono, se non sanno che ti portano dentro. Fermati poiché si fa sera e la notte è lunga.
Domenica 11 aprile 2021 - 2 di Pasqua – B (Gv 20,19-31)
Non solo è stato annunciato che il Crocifisso è risorto, ma ci viene detto anche come possiamo incontrarlo. Il vangelo racconta che il Risorto apparve in mezzo ai suoi entrando a porte chiuse, bloccate con una sbarra. I discepoli comandati dalla paura sono chiusi in casa: sono disorientati perché l’amico Maestro con il quale avevano condiviso tre anni di vita non c’è più. Ogni loro speranza è finita, tutto sembra svanito e inoltre vivono la paura di essere riconosciuti e di fare la stessa fine del Maestro. Ma quelle persone spaesate con saggezza scelgono di stare insieme, non si separano, fanno comunità. Condividono il loro smarrimento, appoggiano l’una all’altra le loro fragilità. Il Risorto apparve in mezzo alla loro paura e augura la pace, che è il dono della sua persona e soffia lo Spirito per sciogliere le paure.
Non solo è stato annunciato che il Crocifisso è risorto, ma ci viene detto anche come possiamo incontrarlo. Il vangelo racconta che il Risorto apparve in mezzo ai suoi entrando a porte chiuse, bloccate con una sbarra. I discepoli comandati dalla paura sono chiusi in casa: sono disorientati perché l’amico Maestro con il quale avevano condiviso tre anni di vita non c’è più. Ogni loro speranza è finita, tutto sembra svanito e inoltre vivono la paura di essere riconosciuti e di fare la stessa fine del Maestro. Ma quelle persone spaesate con saggezza scelgono di stare insieme, non si separano, fanno comunità. Condividono il loro smarrimento, appoggiano l’una all’altra le loro fragilità. Il Risorto apparve in mezzo alla loro paura e augura la pace, che è il dono della sua persona e soffia lo Spirito per sciogliere le paure. Nel gruppo il Risorto cerca proprio chi dubita e lo invita a toccare le sue ferite. Ma Tommaso non tocca il costato, crede alla sua parola di pace. Si arrende non al toccare, ma alla presenza di Cristo che lo incontra. In questo modo il Risorto può dire a tutti noi oggi: «beati quelli che non hanno visto e hanno creduto». La beatitudine sta in un vedere interno al credere e non in una fede che si appoggia al vedere. La mattina di Pasqua il discepolo amato corse al sepolcro «vide e credette» (Gv 20,8). Ma cosa vide? La tomba vuota, i teli e il sudario, non il corpo e le piaghe del Risorto.
Anche noi assomigliamo a Tommaso quando non ci accontentiamo di ascoltare la Parola, ma vogliamo toccare, dimenticando che il dubbio è una sorta di lubrificante della fede. Gesù appare anche a noi per liberarci da una fede talmente sicura di sé da diventare superba, così arrogante da disprezzare chi fa fatica a credere per il peso della vita, per i motivi che solo lui conosce o che non conosce. Tommaso ci insegna che per superare il dubbio basta vedere le ferite delle persone e ascoltare una Parola maiuscola che le illumina e che ci apre sua presenza. Le ferite per il Risorto sono feritoie che aprono a vedere oltre: Dio è nelle ferite! Non possiamo incaricare altri perché credano al nostro posto, perché l’esperienza del Risorto è personale. La vita ci dice che leggere tanti libri sull’amore è aumentare la conoscenza, ma essere amati è un’altra cosa. È l’esperienza che produce la vera conoscenza, perché l’incontro con l’altro accade attraverso la conoscenza del cuore. Il Risorto non si preoccupa di se stesso, ma del pianto della Maddalena, delle paure dei discepoli, delle difficoltà di Tommaso, delle reti vuote dei suoi amici di ritorno dalla pesca. Egli non ti giudica ma ti incoraggia, perché tu possa riprendere fiato, recuperare coraggio. Non viene per chiedere aiuto, ma per portare aiuto: mostra le sue ferite e ti insegna come trovare pace. In che modo? Guarisci le ferite di altri e guarirà presto la tua ferita.
Domenica di Pasqua - 4 aprile 2021 (Mc 16,1-8)
Con l’augurio pasquale che oggi ci scambiamo vogliamo dire che la speranza è viva e che la morte non ha ultima parola. Nel vangelo di Marco l’annuncio della risurrezione non si limita a dire alle donne che Gesù è risorto, ma attira volutamente l’attenzione sul Crocifisso: «Gesù il Crocifisso, è risorto». La croce non è la semplice figura di un martire qualsiasi, che è rimasto fedele a Dio fino a dare la vita per lui, ma è la figura di un oppresso con un volto preciso: il volto di Gesù di Nazareth.
Con l’augurio pasquale che oggi ci scambiamo vogliamo dire che la speranza è viva e che la morte non ha ultima parola. Nel vangelo di Marco l’annuncio della risurrezione non si limita a dire alle donne che Gesù è risorto, ma attira volutamente l’attenzione sul Crocifisso: «Gesù il Crocifisso, è risorto». La croce non è la semplice figura di un martire qualsiasi, che è rimasto fedele a Dio fino a dare la vita per lui, ma è la figura di un oppresso con un volto preciso: il volto di Gesù di Nazareth. È colui che ha predicato un Dio diverso e per molti scandaloso. Egli ha creduto di onorarlo con una pratica di vita diversa e per molti scandalosa. Questo è stato il motivo della sua condanna a morte: fermamente convinto che questa fosse la trascrizione più fedele del volto di Dio. La risurrezione non è una generica vittoria della vita sulla morte, ma la prova che in quella diversità Dio si è riconosciuto. Non ogni vita è risparmiata dal non senso, ma solo quella che ripercorre il cammino tracciato dal Crocifisso: solo una vita donata conduce alla risurrezione. Al contrario, una vita gelosamente trattenuta non vince la morte, ma va incontro a una seconda morte. La risurrezione festeggia la vittoria di un preciso modo di vivere. Appena risorto Gesù pensa ai discepoli che lo hanno abbandonato, perché per lui sono sempre i suoi discepoli. È il trionfo della fedeltà del Padre che non abbandona Gesù nella morte e la fedeltà di Gesù che non lascia senza aiuto chi lo ha abbandonato.
Fosse stato per la fedeltà dei discepoli, la storia di Gesù si sarebbe subito chiusa. Fosse stato per le donne, sarebbe caduta nel silenzio. Anche ai nostri giorni se dipendesse dalla fedeltà di molti figli, la loro vita sarebbe andata alla deriva. Fosse dipeso dalla fedeltà umana dei mariti e delle mogli, molti più matrimoni sarebbero terminati; fosse stato per la fedeltà delle case farmaceutiche ai loro interessi legati ai vaccini, molte più persone sarebbero morte dal Covid-19; fosse stato per la fedeltà agli interessi economici di molti politici, tanti di noi sarebbero chiusi nei loro sepolcri… Sono ancora molti quelli che rimangono fedeli solo ai propri bisogni e non si interessano della sofferenza degli altri, passano oltre e vanno per la loro strada. Sono i devoti di Ponzio Pilato:se ne lavano le mani!Nello stesso tempo sono moltissimi quelli che, senza far rumore, dopo essere stati abbandonati e traditi, trascurati e crocifissi, tendono la mano a chi ha bisogno senza chiedere daterraospiaggiavengono; quelli che piegano le loro ginocchia davanti a chi soffre e non si girano dall’altra parte; le persone che con una parola di coraggio, una vicinanza fraterna rotolano macigni dall’imboccatura del cuore di chi si sente soffocare dal peso della vita. La stagione del virus che stiamo attraversando ha creato non pochi disagi, ma ha suscitato anche comportamenti straordinari di autentica solidarietà tipicamente pasquale. Questa disponibilità gratuita ci ha fatto conoscere sulla terra qualche frammento della fedeltà di Dio che ama e in questo modo abbiamo compreso che la fedeltà non è un lusso, ma è la forza della vita che proviene dall’amore.L’amore, infatti,è dire: tu non morirai!
Domenica 28 marzo 2021 - Le palme - B (Mc 14,1-15,47)
Con la domenica della Palme entriamo nella settimana chiamata santa, perché è il centro della vita del cristiano. Per Gesù sono i giorni di silenzio, di angoscia, di dolore di tradimenti. Non mancano le contraddizioni. La folla che entusiasta accoglie, con rami d’ulivo accoglie Gesù è la stessa che qualche giorno dopo griderà “crocifiggilo”. Pietro che si dichiara disposto a dare la vita per il Maestro, davanti alla domanda di una serva, che gli chiede se è un suo discepolo, risponde: «non lo conosco». E i discepoli dopo essere stati con lui per tre anni nel momento più doloroso si addormentano e scappano. Per non parlare di Giuda.
Con la domenica della Palme entriamo nella settimana chiamata santa, perché è il centro della vita del cristiano. Per Gesù sono i giorni di silenzio, di angoscia, di dolore di tradimenti. Non mancano le contraddizioni. La folla che entusiasta accoglie, con rami d’ulivo accoglie Gesù è la stessa che qualche giorno dopo griderà “crocifiggilo”. Pietro che si dichiara disposto a dare la vita per il Maestro, davanti alla domanda di una serva, che gli chiede se è un suo discepolo, risponde: «non lo conosco». E i discepoli dopo essere stati con lui per tre anni nel momento più doloroso si addormentano e scappano. Per non parlare di Giuda. Nel racconto non si sono buoni e cattivi: ci siamo noi, con le nostre luci e le nostre ombre. Siamo orgogliosi di stare dalla parte di Gesù, ma a volte, sul più bello, scappiamo e tradiamo e magari con la complicità di Pilato lo crocifiggiamo fuori da Gerusalemme, cioè lo mettiamo fuori dalla nostra esistenza.
All’inizio del racconto l’evangelista Marco colloca due figure contrastanti: Giuda e la donna con il vaso pieno di profumo, che nella pietà popolare diventerà la Maddalena. Da un lato c’è Giuda, chiamato l’Iscariota: il traditore, il venditore di Gesù per trenta denari. Dall’altro lato c’è la Maddalena che versa un vaso di profumo, di grande valore, sul capo di Gesù, tanto che alcuni protestano contro la donna per questo spreco invece di «venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri». Tutta la storia della chiesa e della società è stata un alternarsi fra i trenta denari di Giuda e i trecento della Maddalena: fra il denaro che prende il posto di Dio, anche crocifiggendo le persone e il denaro per onorare Dio nei fratelli crocifissi. Ancora oggi il denaro continua a essere usato per pagare ingiustizie e tradimenti, per comprare e vendere esseri umani, dimenticando che la vendita di un uomo è sempre vendita di Dio. Quante volte, anche nelle nostre parentele, il denaro diventa strumento che mette in croce le persone per motivi di eredità! E quante volte, per fortuna, sull’esempio della Maddalena il denaro diventa un vero vaccino per guarire chi è in croce. Sono denari i trenta di Giuda e i trecento della donna, l’importante è non benedire quelli di Giuda e scambiarli per quelli della Maddalena!
Domenica 21 marzo 2021 - 5 quaresima - B (Gv 12,20-33)
Come in occasione di ogni grande festa erano saliti a Gerusalemme non solo ebrei, ma anche greci, cioè dei pagani, che avendo sentito parlare di Gesù, avvicinano il discepolo Filippo e gli chiedono: «Vogliamo vedere Gesù». Il loro modo di esprimere l’adorazione è incrociare lo sguardo di Gesù, volerlo come toccare con i propri occhi e accarezzarlo con lo sguardo. Con la loro richiesta vanno all’essenziale della preghiera al tempio: fare esperienza di Gesù. Filippo non ha una risposta pronta, scontata, ma la cerca in Gesù ed egli invita ad assumere uno sguardo profondo oltre le apparenze esterne: se volete capire chi sono, guardate il chicco di grano, se volete vedermi guardate la croce.
Come in occasione di ogni grande festa erano saliti a Gerusalemme non solo ebrei, ma anche greci, cioè dei pagani, che avendo sentito parlare di Gesù, avvicinano il discepolo Filippo e gli chiedono: «Vogliamo vedere Gesù». Il loro modo di esprimere l’adorazione è incrociare lo sguardo di Gesù, volerlo come toccare con i propri occhi e accarezzarlo con lo sguardo. Con la loro richiesta vanno all’essenziale della preghiera al tempio: fare esperienza di Gesù. Filippo non ha una risposta pronta, scontata, ma la cerca in Gesù ed egli invita ad assumere uno sguardo profondo oltre le apparenze esterne: se volete capire chi sono, guardate il chicco di grano, se volete vedermi guardate la croce. Il chicco di grano appare senza vita, tuttavia non appena cade nella terra e marcisce contiene una forza invisibile agli occhi. La croce appare una sconfitta, ma non appena è piantata nella terra di chi è mendicante di amore, permette di vedere Dio come amore. Per i discepoli, e anche per noi, non è facile accettare l’insuccesso e la morte del nazareno, perché la sua fine senza gloria rischia di mettere fine a ogni speranza. In realtà Gesù non è mai caduto nella trappola del trionfalismo, cercando un destino a basso prezzo, a saldi di fine stagione, ma piuttosto nell’oscurità del terreno del seme: è proprio in quel buio che si sviluppa la fecondità della vita.
È la stessa oscurità che stiamo vivendo nel tempo della pandemia, costretti a muoverci nell’orizzonte ristretto di una stanza o di un mondo visto attraverso una mascherina d’ossigeno, con il pensiero che tortura la mente: sopravviverò?Questa stagione di oscurità fatta di distanziamenti forzati e improvvisi, provoca emorragie della mente e dell’anima, lascia spazio a degli abbracci affidati allo schermo di un telefono, ai silenzi colmi di angoscia. Forse questo tempo di oscurità in cui non vediamo bene che cosa ci aspetta domani, ci sta dicendo l’urgenza di riconoscere il nostro limite, la nostra fragilità, la nostra piccolezza simile a quella del chicco di grano. Gesù non ci invita a una visione doloristica e infelice della religione, ma a riconoscere ciò che è dentro le leggi più profonde della vita: se ti spendi per gli altri, non perdi, ma moltiplichi la vita! Oggi, purtroppo la tendenza dei genitori iper-moderni sono più preoccupati di farsi amare dai loro figli che di educarli, più ansiosi di proteggerli dai fallimenti che di sopportarne il conflitto. Spesso si trasformano in sindacalisti dei loro figli e li convincono di essere nati in una società “pantofola”, pieno di peluche, in cui alla prima difficoltà si accartocciano su se stessi. Chi vive per sé è come il seme caduto in terra che non porta frutto, chi vive per gli altri è come il seme caduto in terra che porta molto frutto. Ai greci che chiedevano: «vogliamo vedere Gesù», possiamo rispondere che egli non si lascia tenere a bada con qualche sacrificio, con qualche messa domenicale, con qualche segno di croce, ma si lascia vedere quando si ama, in modo disinteressato, gli altri.
Domenica 14 marzo 2021 - 4 quaresima – B (Gv 3,14-21)
Il vangelo ci narra di un incontro che può diventare paradigmatico per chi vive nella ricerca di senso. L\’interprete è Nicodemo, un fariseo, un conoscitore dei testi biblici, un saggio del suo tempo. Egli non si accontenta di ciò che sa, sente che gli manca qualcosa, meglio qualcuno gli manca. È incuriosito dalla figura di quel giovane maestro che viene da Nazareth, che fa discutere i capi e la gente comune. Nicodemo decide di incontrare personalmente Gesù e per non compromettere la sua reputazione di capo, va da lui di notte. Il rischio era che venisse scambiato per un suo sostenitore.
Il vangelo ci narra di un incontro che può diventare paradigmatico per chi vive nella ricerca di senso. L\’interprete è Nicodemo, un fariseo, un conoscitore dei testi biblici, un saggio del suo tempo. Egli non si accontenta di ciò che sa, sente che gli manca qualcosa, meglio qualcuno gli manca. È incuriosito dalla figura di quel giovane maestro che viene da Nazareth, che fa discutere i capi e la gente comune. Nicodemo decide di incontrare personalmente Gesù e per non compromettere la sua reputazione di capo, va da lui di notte. Il rischio era che venisse scambiato per un suo sostenitore. Egli è l’immagine di un uomo che mosso dalla ricerca di senso, cammina e bussa alla porta di un altro che gli apre, lo accoglie, ascolta, entra in dialogo. Gesù inizia a parlare dicendo: «Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio, perché chiunque crede in lui abbia la vita». Dio è l’amante non solo dell’uomo, ma del mondo, di tutto ciò che è creato. Questa è la bella notizia! Questa è la luce che rischiara la notte di Nicodemo e le nostre notti. Noi non siamo cristiani perché amiamo Dio, ma perché crediamo che Dio ci ama. La vita di coloro che sono amati da Dio non è a misura di tribunale, ma di abbraccio misericordioso. E quando ci sentiamo amati la vita cambia, si riempie di luce, di fiducia. Siamo immersi nell’amore di Dio e spesso non ce ne rendiamo conto! Diamo per scontato che ogni giorno, attraverso le persone, respiriamo amore dato e amore ricevuto.
Nicodemo è un testimone della ricerca notturna di Gesù. È capace di deporre la maschera della sue sicurezze, l’abbigliamento del suo ruolo, la veste delle sue funzioni sociali e religiose. Sono ancora molte le persone, anche oggi, che si sentono qualcuno quando portano una divisa, altri che per riscattarsi sognano di portarla…, e Nicodemo uscendo per andare da Gesù la lascia a casa. Da buon ebreo non si accontenta dei traguardi raggiunti, non beve ai rigagnoli della conoscenza tradizionale, ma si pone in ricerca della sorgente. Gesù nell’accogliere Nicodemo ci dice che tra credenti e non credenti non esiste quel muro che noi stessi abbiamo costruito con le nostre mani, ma è necessario creare una sorta di solidarietà con chi vive ed è sensibile ai toni del vangelo. La disponibilità all’accoglienza dell’altro, che dice di non credere, deriva dal fatto che tutti siamo in ricerca. Il card. Martini affermava: «Ciascuno di noi ha in sé un non credente e un credente che si parlano dentro, si interrogano a vicenda, si rimandano continuamente interrogazioni pungenti e inquietanti l’uno all’altro. Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa». E continuava ancora: «L’importante è che impariatea inquietarvi: se credenti sulla vostra fede, se non credenti sulla vostra non credenza». È l’esperienza di Nicodemo che sente dentro di sè il non credente e il credente che si parlano. Siamo tutti cercatori di senso, bisognosi di uscire dalla notte delle nostre incertezze, dalle paure più paralizzanti, dalle comodità più affascinanti. Nicodemo sta dicendo anche a noi che nelle notti più buie della nostra vita possiamo uscire per cercare il Signore Gesù, anche quando l’alba sembra ancora lontana.
Domenica 7 marzo 2021 - 3 quaresima – B (Gv 2,13-25)
Oggi Gesù ci mette in guardia: il tempio può diventare il primo nemico della fede. L’evangelista Giovanni, quasi come premessa al suo vangelo, riferisce dell’episodio in cui Gesù davanti allo spettacolo del tempio, ridotto a bottega di mercato, perde le staffe. È un Gesù irritato, passionale, infuriato, a cui non siamo abituati, perché preferiamo vederlo stampato su una immaginetta: tranquillo, sereno, pacifico. Egli definisce il tempio «la casa del Padre», ma parlando del tempio del suo corpo aggiunge: Distruggetelo e io in tre giorni lo farò risorgere! In realtà Gesù non si arrabbia contro le mura del tempio, ma contro il fatto che sia stato ridotto a un luogo di mercato, a un bazar del sacro, a un traffico di domanda e offerta.
3 quaresima – B (Gv 2,13-25)
Oggi Gesù ci mette in guardia: il tempio può diventare il primo nemico della fede. L’evangelista Giovanni, quasi come premessa al suo vangelo, riferisce dell’episodio in cui Gesù davanti allo spettacolo del tempio, ridotto a bottega di mercato, perde le staffe. È un Gesù irritato, passionale, infuriato, a cui non siamo abituati, perché preferiamo vederlo stampato su una immaginetta: tranquillo, sereno, pacifico. Egli definisce il tempio «la casa del Padre», ma parlando del tempio del suo corpo aggiunge: Distruggetelo e io in tre giorni lo farò risorgere! In realtà Gesù non si arrabbia contro le mura del tempio, ma contro il fatto che sia stato ridotto a un luogo di mercato, a un bazar del sacro, a un traffico di domanda e offerta. Nel tempio per due volte al giorno, alle nove del mattino e alle tre del pomeriggio, come segno di culto offerto a Dio, veniva ucciso un agnello. Dio veniva onorato e amato offrendogli qualcosa: una preghiera, un’elemosina, un sacrificio. Gesù contesta e interrompe questo rapporto con Dio fondato sul sangue di animali e introduce lui stesso come nuovo tempio, vero agnello che morirà proprio alle tre del pomeriggio, l’ora in cui al tempio si sacrificava l’agnello. Con Gesù è finito il tempo in cui si va in chiesa per propiziarsi Dio, per tenerselo buono, ma si va per ringraziarlo, per dire che siamo noi in debito con Lui. Per Gesù un certo uso del tempio diventa una realtà scandalosa e ci domanda di purificare la nostra idea di Dio. Papa Francesco, con coraggio e non senza rischi, nella sua visita in Iraq a Mosul, ex roccaforte dell’Isis, ha condannato la strumentalizzazione della religione dicendo: «Non usate il nome di Dio per giustificare la violenza: mai più uccidere in nome di Dio». «Se Dio è il Dio della vita – e lo è –, a noi non è lecito uccidere i fratelli nel suo nome”. «Se Dio è il Dio della pace – e lo è –, a noi non è lecito fare la guerra nel suo nome. Se Dio è il Dio dell’amore – e lo è –, a noi non è lecito odiare i fratelli».
Il gesto e le parole di Gesù al tempio sono profezia per oggi. È molto facile adattarsi a un Dio che abita le cattedrali, che risiede nelle basiliche, prigioniero delle costruzioni degli uomini. Questo tipo di Dio non disturba, non ribalta il nostro rapporto commerciale con lui, tipico di chi fa cose per Dio nella speranza che Lui risponda alle nostre richieste. Non ci sono preghiere, offerte o liturgie che possano comprare Dio e il suo amore. Non esistono sacrifici, preghiere, fioretti, incensi, tridui e novene che possano piegare Dio a nostro favore. Gli scaltri usano Dio per guadagnarci, i devoti per guadagnarselo! Non è sbagliato fare l’offerta per mantenere decoroso l’edificio della chiesa, a patto che non lo facciamo perché il dio-ragioniere si ricordi di essere in debito con noi. Gesù si scaglia contro questo mercato, contro questa religione che crea ignoranza, superstizione e addormenta le coscienze. Se all’epoca di Gesù il tempio era diventato mercato, ora, senza nessun pudore, è il mercato globale che è diventato il nuovo tempio: il luogo dove si adorano i nuovi idoli, le false divinità. E il mercato ha trovato anche oggi nuovi adoratori tra di noi: gente che si inginocchia davanti al denaro e tira dritto davanti a chi ha bisogno! Gesù fa problema, perché ha descritto un Dio che ha scelto come tempio l’uomo. Il vero tempio nel quale adorare, non lo descrive nel giro di pietre di un edificio che consideriamo sacro, come quello della chiesa parrocchiale, ma nel perimetro vivo di un corpo di carne: il Suo corpo che sono le persone. Il Suo corpo è l’ammalato, il mendicante, l’immigrato, il carcerato, lo straniero…, la cui sola presenza spesso ci pesa, ci infastidisce. Alla teologia del tempio di pietra, Gesù ci insegna a sostituire la teologia del tempio di carne: gli esseri umani sono il Suo santuario! E allora: fuori i mercanti dal tempio e facciamo entrare i poveri!
28 febbraio 2021 - 2 quaresima – B (Mc 9,2-10)
Dal deserto di domenica scorsa la liturgia ci porta al monte della luce: dall’esperienza della tentazione a quella della trasfigurazione. Gesù porta tre discepoli sopra un monte alto. Sono quelli a cui Gesù ha messo un soprannome che dice la loro fatica a seguirlo. Sono Simone chiamato “Pietro dalla testa dura”, insieme ai due fratelli Giacomo e Giovanni, “chiamati figli del tuono”, perché fanatici violenti. Questi tre discepoli sono i più testardi, ma anche i più influenti nel gruppo. Il monte, considerato nella Bibbia luogo tra terra e cielo, è lo spazio che Dio sceglie per parlare e rivelarsi. E proprio qui sul monte Gesù cambia figura davanti a loro, al punto che anche le sue vesti sono investite da una luce bianchissima.
Dal deserto di domenica scorsa la liturgia ci porta al monte della luce: dall’esperienza della tentazione a quella della trasfigurazione. Gesù porta tre discepoli sopra un monte alto. Sono quelli a cui Gesù ha messo un soprannome che dice la loro fatica a seguirlo. Sono Simone chiamato “Pietro dalla testa dura”, insieme ai due fratelli Giacomo e Giovanni, “chiamati figli del tuono”, perché fanatici violenti. Questi tre discepoli sono i più testardi, ma anche i più influenti nel gruppo. Il monte, considerato nella Bibbia luogo tra terra e cielo, è lo spazio che Dio sceglie per parlare e rivelarsi. E proprio qui sul monte Gesù cambia figura davanti a loro, al punto che anche le sue vesti sono investite da una luce bianchissima. Gesù in disparte voleva pregare, ma anche ascoltare quei discepoli con tutta la loro disponibilità e fragilità. Per i discepoli Gesù si preannunciava ormai come un perdente, uno sconfitto, destinato a morire come tanti altri maestri del tempo. Per questo Gesù li aiuta ad entrare in un’ottica diversa, a vedere le cose in profondità, a fidarsi di Dio. Quando Gesù «si trasfigurò davanti a loro», lo videro in modo nuovo. Oltre l’apparenza di un profeta fallito, vedono in anticipo che la luce dell’amore supera la morte. In quel momento erano riusciti ad andare oltre la figura, oltre l’apparenza. Nel loro cuore nasce una consapevolezza nuova che l’evangelista esprime con l’immagine delle vesti bianchissime. Quest’uomo che non ha successo, vicino al quale cresce l’opposizione e si organizza il complotto, non è un esaltato, un venditore di fumo, un illuso. La sua esistenza è piuttosto indica la vera vita. Ora però bisognava scendere dal monte.
I discepoli non capiscono fino in fondo l’accaduto.Come Gesù ha potuto cambiare d’aspetto?E Gesù rivolge a Pietro la sua parola che, in parte, scioglie l’incomprensione dicendo:caro Pietro guarda la croce da un altro punto di vista! Guardala con gli occhi dell’amore.Chi si dona diventa luminoso! Si tratta di vivere innamorati della vita, delle persone e allora si comprende il senso della croce, della fatica, del sacrificio. Avete mai visto il volto di un ragazzo dopo la prima cotta? Non avete mai visto il volto di un genitore che, dopo anni di assistenza, tiene tra le braccia il figlio guarito? Non avete mai visto gli occhi di una mamma quando vede suo figlio dopo averlo partorito? L’amore, con il suo prezzo, cambia lo sguardo, trasforma il modo di vedere la realtà. Chi ama trasforma la sua figura, sitras-figura, toglie l’ombra della fatica, della croce e fa luce agli altri. Le cose della vita si capiscono amando, così come Dio lo si comprende amando: chi non sa aprire il cuore a Dio, potrà avere il concetto di Dio, ma rischia di non sentirlo. Ai discepoli e a noi che viviamo ai piedi del monte, è chiesto di ascoltare e di prendere sul serio la sua Parola, anche quando parla di sofferenza. Nella prospettiva della trasfigurazione, le realtà dolorose della vita non vengono eliminate, ma non potranno più essere separate dalla Luce, perché le ombre della vita ci sono sempre là dove c’è la Luce.
Domenica 21 febbraio 2021 - 1 quaresima – B (Mc 1,12-15)
Con la quaresima entriamo anche noi nel deserto per ascoltare una Parola che ci pone in ascolto di noi stessi, che orienta meglio i nostri passi, per riprogrammare il nostro cammino. Gesù, dopo aver sperimentato la vicinanza di Dio con il battesimo, spinto dallo Spirito è tentato per quaranta giorni nel deserto. È lì che viene condotto verso il suo cuore, verso le sue intenzioni più profonde, perché è nel cuore che si formano le scelte e si decide tutto. Nessuno può evitare il deserto della sua vita: il momento della tentazione, la stagione di crisi, il confronto con i propri impulsi sbagliati. Da parte nostra è forte la tentazione di evitare la prova, mentre oggi Gesù ci ricorda che Dio vuole che osserviamo e incontriamo da vicino i nostri lati oscuri.
Con la quaresima entriamo anche noi nel deserto per ascoltare una Parola che ci pone in ascolto di noi stessi, che orienta meglio i nostri passi, per riprogrammare il nostro cammino. Gesù, dopo aver sperimentato la vicinanza di Dio con il battesimo, spinto dallo Spirito è tentato per quaranta giorni nel deserto. È lì che viene condotto verso il suo cuore, verso le sue intenzioni più profonde, perché è nel cuore che si formano le scelte e si decide tutto. Nessuno può evitare il deserto della sua vita: il momento della tentazione, la stagione di crisi, il confronto con i propri impulsi sbagliati. Da parte nostra è forte la tentazione di evitare la prova, mentre oggi Gesù ci ricorda che Dio vuole che osserviamo e incontriamo da vicino i nostri lati oscuri. La tentazione, quindi, non è un incidente di percorso nella vita, ma una stagione di prova attraverso la quale Dio ci interpella. La prova contiene in se stessa una spinta a cambiare, anche se domanda sempre un prezzo da pagare. Tuttavia se non si scappa, ma la si affronta, si diventa più veri, più liberi, più capaci di amare. Il deserto della vita è spietato, perché ci mostra quello che veramente siamo e questo è il motivo per cui cerchiamo di evitarlo. Nella vita l’esperienza della gioia è bella, ma è quella della sofferenza che ci fa crescere, perché mette il dito su quella parte di noi che ancora deve crescere.
L’evangelista Marco non fa l’elenco delle tentazioni, ma ci ricorda l’essenziale. Nel gioco della libertà le tentazioni sono necessarie: non si possono evitare, ma si possono attraversare. Dove trovare la forza per attraversare le tentazioni della vita? Dove ha trovato la forza Maria di non cedere alla tentazione di dire all’angelo: scegli un’altra donna? Dove ha trovato la forza Zaccheo di superare la tentazione di fare la cresta sulle tasse? Dove i discepoli hanno trovato la forza di non dire a Gesù: noi siamo pescatori di pesci e non di persone? Dove la donna cananea al pozzo ha trovato la forza per non cedere alla tentazione di considerare il dono dell’acqua più importante del Donatore? Dove ha trovato la forza Simone di non cedere alla tentazione di tradire sua moglie? Dove ha trovato la forza Giovanna di non prostituirsi per mantenere i propri figli? Dove l’imprenditore Mario ha trovato la forza di non cedere alla tentazione di procurarsi l’appalto attraverso le mazzette? È stata lacompagniadi Dio che ha regalato tutta questa forza. Certo, la suacompagnianon è un certificato di garanzia contro gli incidenti di percorso della vita. Dio non ha liberato Gesù dalle tentazioni, dai pericoli, dall’insuccesso, dalle inimicizie, dalla croce, ma lo ha sostenuto, gli ha dato luce e forza per il suo cammino. L’affidamento a Dio non comporta nessuna illusione: Egli non ti toglie magicamente i sassi sulla tua strada, ma casomai ti aiuta a vederli e ad affrontarli. E nel tempo della tentazione non è poco, perché riuscire a vedere in tempo gli ostacoli, significa attraversarli, superarli e non subirli.