Sergio Gaburro Sergio Gaburro

Domenica 14 febbraio 2021 (Mc 1,40-45)

Oggi l’uomo che va da Gesù è un lebbroso emarginato, senza nome, stanco di far suonare la campana per segnalare la sua presenza di persona impura. Egli rompe le regole della Legge che gli domandava di mantenere il distanziamento e si inginocchia davanti a Gesù supplicandolo: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Tutti si allontanano, ma Gesù rimane. Per i sacerdoti del tempio il lebbroso è un uomo che sconta il castigo di Dio, per Gesù è un uomo che ha bisogno. A quel tempo la lebbra era considerata una punizione per i peccati, come del resto anche oggi i profeti di sventura interpretano la pandemia del Covid-19 come una punizione di Dio, arrabbiato contro un mondo peccatore. Purtroppo abbiamo fatto coincidere la Sua volontà con le stagioni del dolore, quando in realtà la sua volontà è che l’uomo stia bene, guarisca, sia liberato.

Oggi l’uomo che va da Gesù è un lebbroso emarginato, senza nome, stanco di far suonare la campana per segnalare la sua presenza di persona impura. Egli rompe le regole della Legge che gli domandava di mantenere il distanziamento e si inginocchia davanti a Gesù supplicandolo: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Tutti si allontanano, ma Gesù rimane. Per i sacerdoti del tempio il lebbroso è un uomo che sconta il castigo di Dio, per Gesù è un uomo che ha bisogno. A quel tempo la lebbra era considerata una punizione per i peccati, come del resto anche oggi i profeti di sventura interpretano la pandemia del Covid-19 come una punizione di Dio, arrabbiato contro un mondo peccatore. Purtroppo abbiamo fatto coincidere la Sua volontà con le stagioni del dolore, quando in realtà la sua volontà è che l’uomo stia bene, guarisca, sia liberato. Egli prova compassione, si lascia coinvolgere, tende la mano e tocca il lebbroso dicendo «Lo voglio, sii purificato». Prima si lascia coinvolgere, poi lo tocca e infine parla. Il movimento va dal cuore, alla mano, alla parola. Se il cuore non si coinvolge, la parola non guarisce nessuno. Gesù va contro la legge e toccando il lebbroso sa che per quella legge diventa impuro. Tuttavia sa bene che la sua vicinanza guarisce più della legge.

Quel lebbroso siamo noi, isolati, stanchi, impuri, con il dubbio che Dio abbia bisogno del nostro dolore, delle nostre lacrime, delle nostre sofferenze. Senza dubbio, nei dintorni, erano tanti i lebbrosi nascosti che si vergognavano di mostrarsi e questo uomo vince la paura di infrangere la legge ed esce allo scoperto. Anche noi come quel lebbroso, con un tono umile e sommesso, cerchiamo il coraggio di rivolgerci a Gesù dicendo: «Se vuoi…». Sembra quasi non voglia disturbarlo. Egli pensa che solo chi ha il tagliando in regola, solo chi se lo merita, possa inginocchiarsi e chiedere qualcosa a Dio. Anche oggi si sente dire:io ho la mia lebbra dentro, non vivo più con mio marito, non so se posso ancora mettermi in ginocchio e rivolgermi a Dio…In realtà ciò che conta è il nostro desiderio di incontrare Colui che di misericordia se ne intende. Tutti abbiamo la nostra “lebbra” che ci separa da Dio e forse è così nascostasotto una veste meritevole che non abbiamo, come il lebbroso, il coraggio di uscire allo scoperto. Ci accontentiamo di curare l’immagine:non rubo, non uccido, vado a messa…Ma nessuna legge da sola basta a purificare il cuore. Lo stile di Gesù ci insegni a sentire dentro di noi la compassione di chi non sta bene, ci dia di toccare da vicino le ferite di chi ha bisogno, senza bisogno di pubblicità, come lui, in silenzio.

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Sergio Gaburro Sergio Gaburro

Domenica 7 febbraio 2021 (Mc 1,29-39)

l racconto della guarigione della suocera di Pietro, nella sua semplicità, è molto vivo. Tuttavia, il modo di narrare del vangelo può trarci in inganno, perché Gesù è descritto nelle vesti di un operatore quasi magico di interventi miracolosi. In realtà non si vuole dire la cronaca dei fatti, ma evidenziare che l’incontro con Gesù genera nelle persone un cambiamento nella loro storia. Egli non vuole che diventiamo persone di un altro genere, ma persone capaci di cogliere nella sua parola un messaggio di vita. Il vangelo ritrae Gesù sempre a contatto con le persone, collocato dentro la realtà. A Cana fa festa per un matrimonio, entra nella casa di gente impura come Zaccheo, mangia con uomini considerati pubblici peccatori… Egli prende sul serio il vissuto delle persone, non parla dell’anima quando si trova davanti a un corpo sofferente. Viene a sapere che la suocera di Pietro è a letto con la febbre e con i suoi va a trovarla.

Il racconto della guarigione della suocera di Pietro, nella sua semplicità, è molto vivo. Tuttavia, il modo di narrare del vangelo può trarci in inganno, perché Gesù è descritto nelle vesti di un operatore quasi magico di interventi miracolosi. In realtà non si vuole dire la cronaca dei fatti, ma evidenziare che l’incontro con Gesù genera nelle persone un cambiamento nella loro storia. Egli non vuole che diventiamo persone di un altro genere, ma persone capaci di cogliere nella sua parola un messaggio di vita. Il vangelo ritrae Gesù sempre a contatto con le persone, collocato dentro la realtà. A Cana fa festa per un matrimonio, entra nella casa di gente impura come Zaccheo, mangia con uomini considerati pubblici peccatori… Egli prende sul serio il vissuto delle persone, non parla dell’anima quando si trova davanti a un corpo sofferente. Viene a sapere che la suocera di Pietro è a letto con la febbre e con i suoi va a trovarla. Non dà appuntamento sulla piazza, non chiama i giornalisti e le telecamere del tempo, ma entra in una casa privata. Si avvicina alla donna, la prende per mano, la fa alzare (letteralmente dovremmo tradurre: la fa risorgere), e lei si mette a servirli. Chi ama trasmette vita e il grosso del lavoro lo fa Cristo. Talvolta noi pensiamo di raggiungere Dio attraverso i nostri riti, le nostre devozioni, le nostre candele, in realtà è lui che gratuitamente ci raggiunge ci guarisce. Noi non siamo liberi quando non abbiamo bisogno di nessuno, perché se la suocera di Pietro avesse ragionato così, da sola non sarebbe guarita. È libero chi riconosce di aver bisogno degli altri, chi accetta di farsi aiutare, chi si lascia amare. Gesù non guariva tutti, ma tutti curava. In che modo? Attraverso la sua vicinanza e la sua parola, che trovava forza nella preghiera. Con la preghiera Gesù sta in rapporto con il Padre, come il fiume dipende dalla sorgente. La fede non è un discorso, ma un cammino verso l’altro. Di conseguenza pregare è non fare di sé il centro della propria vita e della propria azione: non significa predicare se stessi! La preghiera non è una lista di richieste da presentare a Dio, o peggio un suggerire a Dio il suo mestiere. Non si prega perché una situazione vada in modo diverso, ma perché possa cambiare il nostro modo di affrontare la realtà, la situazione, la malattia. Spesso i fatti non cambiano, perché il corso della vita segue una sua logica che si impone. Anche il pregare di Gesù nel Getsemani non cambierà la realtà, ma gli darà la forza per stare con fiducia dentro il percorso della croce. Gesù, guarendo la suocera di Pietro, ci coinvolge nel vivere corpo a corpo con la gioia e il dolore delle persone: avvicinandoci a coloro che stanno male, prendendo la loro mano e rimettendoli in piedi perché tornino a servire altri. Questo è il miracolo: appoggiare una fragilità sull’altra.

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Sergio Gaburro Sergio Gaburro

Domenica 31 gennaio 2020 (Mc 1,21-28)

Il vangelo di Marco è attraversato da una domanda: chi è Gesù? È il nostro interrogativo e di chi rimane stupito del suo insegnamento. Gesù entra nella sinagoga di Cafarnao, non ascolta la parola dello scriba, del predicatore della Legge, ma si mette a insegnare. Se gli esperti delle Scritture insegnavano “dottrine di uomini” spacciandole per leggi di Dio”, norme e regole che valevano per gli altri e non per se stessi, Gesù parla «come uno che ha autorità», cioè come uno credibile, perché vive ciò che predica. Il mondo di oggi – nella società come nella chiesa – non ha bisogno dell’autorità di maestri che chiedono agli altri ciò che per primi non vivono; non ha bisogno di cercatori di poltrone, ma di cercatori di persone che siedono sulle loro ferite; abbiamo bisogno di gente che «se ascolta i maestri lo fa perché sono testimoni». E l’autorità di Gesù gli è riconosciuta, perché la sua vita non lo smentisce.

Il vangelo di Marco è attraversato da una domanda: chi è Gesù? È il nostro interrogativo e di chi rimane stupito del suo insegnamento. Gesù entra nella sinagoga di Cafarnao, non ascolta la parola dello scriba, del predicatore della Legge, ma si mette a insegnare. Se gli esperti delle Scritture insegnavano “dottrine di uomini” spacciandole per leggi di Dio”, norme e regole che valevano per gli altri e non per se stessi, Gesù parla «come uno che ha autorità», cioè come uno credibile, perché vive ciò che predica. Il mondo di oggi – nella società come nella chiesa – non ha bisogno dell’autorità di maestri che chiedono agli altri ciò che per primi non vivono; non ha bisogno di cercatori di poltrone, ma di cercatori di persone che siedono sulle loro ferite; abbiamo bisogno di gente che «se ascolta i maestri lo fa perché sono testimoni». E l’autorità di Gesù gli è riconosciuta, perché la sua vita non lo smentisce. Nella sinagoga c’è anche un uomo che, pur pregando, in lui abita uno spirito impuro. Questo spirito malato interroga Gesù dicendo: «Che vuoi da noi Gesù Nazareno, sei venuto a rovinarci?». Dice di sapere che egli è il «Santo di Dio», ma è la fede che viene da un cuore impuro. Gesù gli ordina di tacere e di uscire da quell’uomo, perché è la sua Parola che va ascoltata. L’uomo di Cafarnao rappresenta il credente abitato da uno spirito impuro: una persona sofferente, bloccata, segnata da ferite che la vita gli ha procurato. È la situazione di chi è schiavo e complice delle proprie scelte, delle proprie immaturità e contraddizioni. Forse oggi il più grave e diffuso “spirito impuro” è di rassegnarsi alle solite abitudini, è delegare che altri pensino e decidano per noi. L’uomo indemoniato dice una profonda verità: è vero che parlandoci Gesù è venuto a rovinarci, a disturbare la nostra quiete, a scoprire altarini, a evidenziare privilegi, a smascherare presunte virtù. Molti potrebbero dire:caro Gesùstavamo meglio prima di ascoltarti… sei troppo esigente!L’uomo di Cafarnao che prega nella comunità ed è abitato da un spirito malato, interpreta il credente praticante abitato da una fede demoniaca, che sente Dio come rivale dell’uomo, che impedisce la felicità, che impone rinunce e sacrifici. La fede demoniaca è un misto di superbia e di scaramanzia: ci gonfia di presunzione, ci fa sentire migliori degli altri e autorizzati a giudicarli. Lasciamo che Gesù entri dentro il tempio della nostra coscienza e, con la sua Parola, rovini la nostra falsa immagine di Dio.

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Sergio Gaburro Sergio Gaburro

Domenica 24 gennaio 2020 (Mc 1,14-20)

Il Gesù del vangelo di Marco è sempre in movimento e nello stesso tempo mette in movimento le persone. Quale buona notizia di Dio annuncia Gesù? Egli dice: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo». Nelle sue parole c’è un tono di gioia e insieme di urgenza. Si tratta di un’offerta rivolta a tutti, compresi gli esclusi: i poveri, i peccatori, i piccoli, gli stranieri. Il Regno di Dio, il sorprendente amore di Dio, è arrivato nella sua persona. Dio ci è venuto incontro, si è avvicinato e la risposta è la “conversione”: il passaggio dall’egoismo all’amore, dalla difesa dei miei privilegi alla solidarietà con tutti.

Il Gesù del vangelo di Marco è sempre in movimento e nello stesso tempo mette in movimento le persone. Quale buona notizia di Dio annuncia Gesù? Egli dice: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo». Nelle sue parole c’è un tono di gioia e insieme di urgenza. Si tratta di un’offerta rivolta a tutti, compresi gli esclusi: i poveri, i peccatori, i piccoli, gli stranieri. Il Regno di Dio, il sorprendente amore di Dio, è arrivato nella sua persona. Dio ci è venuto incontro, si è avvicinato e la risposta è la “conversione”: il passaggio dall’egoismo all’amore, dalla difesa dei miei privilegi alla solidarietà con tutti. Subito dopo le parole di Gesù, si segnala il suo sguardo sui pescatori Simone e Andrea che gettavano le reti e su Giacomo e Giovanni che le riparavano. Non sono i discepoli che vedono Gesù, ma è lui che per primo si accorge di loro. Li chiama nel vivo delle loro attività: stanno pescando. Da pescatori di pesci li chiama a seguirlo, diventando pescatori di uomini. Dicendo che “subito” lasciarono reti e lo seguirono l’evangelista concentra in poche righe ciò che è avvenuto in un arco di tempo ben più lungo, fatto di piccoli passi, di cedimenti, di contraddizioni, di debolezze, di tradimenti.

È Gesù che fissa il suo sguardo sulla nostra vita. Egli si accorge di noi prima ancora che noi possiamo lontanamente pensare a lui, prima che possiamo ascoltarlo o prenderlo sul serio. Gesù chiama i discepoli nel vivo delle loro attività: stanno pescando pesci, riparando le reti. Gesù li osserva e vede come vivono il loro mestiere. Del resto noi diciamo chi siamo dal modo in cui gettiamo le reti nel mare delle nostre attività di ogni giorno, dal modo in cui ripariamo le reti che si rompono, correggiamo le relazioni che si rompono. Tu riveli chi sei dal modo in cui parli a tuo figlio, dal modo in cui tratti il tuo vicino, dal modo in cui tu saluti chi incontri. Dalla passione che adoperi per fare le cose di ogni giorno si capisce se sei contento. Gesù fa capire che seguirlo non è cambiare mestiere, perché quei pescatori continueranno a pescare. Si tratta piuttosto di cambiare mentalità, di dare alla vita un orientamento nuovo, di fare le stesse cose di sempre con una passione e un cuore diverso. Non si diventa cristiani soltanto a forza di ripetere preghiere, novene e riti, ma vivendo nel mare delle nostre cose quotidiane in modo evangelico. Non è questione di sforzo, ma di direzione: per un corridore che corra nella direzione sbagliata, il massimo sforzo non serve a niente. Qualcuno potrebbe pensare che Gesù chiama quelli che saranno gli apostoli e quindi la chiamata vale solo per i preti, non per tutti. In realtà tutti siamo chiamati a pescare persone che stanno affogando nel mare dei loro scoraggiamenti, nell’acqua della loro disperazione, nel fiume delle loro disgrazie. Tuttavia solo chi si lascia “pescare” da Gesù, può “pescare” altri e strapparli dal pericolo.

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Sergio Gaburro Sergio Gaburro

Domenica 17 gennaio 2020 (Gv 1,35-42)

Nel vangelo c’è un bellissimo gioco di sguardi. Il Battista con uno sguardo intenso fissa Gesù, mentre alla fine è Gesù che fissa lo sguardo su Simone. Tutto è ambientato in una giornata in cui si racconta la vocazione di tre discepoli, nella direzione di tre domande: chi è Gesù? Chi è il discepolo? Dove porta il seguirlo? Gesù entra in scena, prende l’iniziativa e chiede ai due che lo seguono: «Che cosa cercate?».

Nel vangelo c’è un bellissimo gioco di sguardi. Il Battista con uno sguardo intenso fissa Gesù, mentre alla fine è Gesù che fissa lo sguardo su Simone. Tutto è ambientato in una giornata in cui si racconta la vocazione di tre discepoli, nella direzione di tre domande: chi è Gesù? Chi è il discepolo? Dove porta il seguirlo?  Gesù entra in scena, prende l’iniziativa e chiede ai due che lo seguono: «Che cosa cercate?». Non chi, ma che cosa. La domanda può apparire generica, ma è una provocazione. Se dicesse cercate me? sarebbe evidente. Ma sta dicendo: che cosa sperate di ottenere da me? Con la domanda Gesù spinge a prendere coscienza della propria ricerca. I due discepoli chiedendo dove abita, vogliono conoscerlo meglio, ascoltarlo, parlargli: sono interessati alla sua persona. Alla domanda iniziale segue un imperativo: «venite», e una promessa: «vedrete». Cercare, venire, vedere, sono tre tappe del cammino verso Cristo.

L’incontro tra persone spesso inizia con lo sguardo. Accade che gli occhi di una persona dicono molto di più di tutte le sue parole. Ci sono degli sguardi che dicono tutto e delle parole che restano vuote! Il Battista non si ferma a guardare Gesù com’è vestito, quanto è elegante, se è alla moda, ma è interessato alla sua persona. Si dice che Andrea pone in ricerca il fratello Simone, ma sono le parole di Gesù che cambiano la vita e il ruolo di Simone (v. 42). In questo modo, quasi per contagio, nasce il gruppo dei primi discepoli e testimoni. Anche a noi Gesù pone oggi la domanda «Che cosa cercate?». Egli vuole che ci guardiamo dentro, che ascoltiamo i nostri desideri profondi, che prendiamo coscienza di ciò che stiamo cercando. Conoscendoci come cercatori di senso ci domanda: Che cosa cerchi? Perché se il tuo cuore cerca, sente che qualcosa gli manca. Quante cose, sogni, progetti, coltiviamo ogni giorno, senza trovare quello che cerchiamo. Sembra non basti cercare con gli occhi. Come i discepoli anche noi gli chiediamo: «Dove abiti?». Dove sei? Dove ti troviamo? Dove possiamo venirti a cercare quando ti perdiamo di vista? Non vogliamo altre informazioni religiose, non chiediamo altri catechismi, non domandiamo il tuo indirizzo di casa, ma di poterti frequentare. E Gesù: vuoi sapere chi sono? Seguimi. Cerca di incontrarmi e quando pensi di dovermi trovare, sappi che sei stato già trovato. Vieni verso la mia Parola, tieni il mio passo. Guarda il mio stile di vita, osserva come mi fermo davanti alle ferite delle persone. La mia vera abitazione non è una casa di pietra, ma la persona: una casa fatta di carne. Se entri, mi troverai.

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Marco Morandini Marco Morandini

Battesimo del Signore (Mc 1,7-11)

La celebrazione del Battesimo del Signore chiude il ciclo delle feste natalizie. Nel vangelo di Marco non si racconta della nascita di Gesù nella mangiatoia, non si dice nulla della sua famiglia: né di Betlemme, né dei pastori, né dei magi, né della stella. Gesù è ormai grande e pronto per la missione. L’evangelista evidenzia gli effetti del battesimo di Gesù, il suo orientamento di vita. Innanzitutto, parla dell’«aprirsi del cielo», non perché sta per scendere la scure minacciosa dell’ira di Dio, ma perché scende il suo Spirito, vale a dire il suo amore che dà vita.

La celebrazione del Battesimo del Signore chiude il ciclo delle feste natalizie. Nel vangelo di  Marco non si racconta della nascita di Gesù nella mangiatoia, non si dice nulla della sua famiglia: né di Betlemme, né dei pastori, né dei magi, né della stella. Gesù è ormai grande e pronto per la missione. L’evangelista evidenzia gli effetti del battesimo di Gesù, il suo orientamento di vita. Innanzitutto, parla dell’«aprirsi del cielo», non perché sta per scendere la scure minacciosa dell’ira di Dio, ma perché scende il suo Spirito, vale a dire il suo amore che dà vita. Con Cristo il cielo non è più chiuso, ma è stato aperto e possiamo vivere con fiducia. Inoltre, l’evangelista afferma che «venne una voce dal cielo», che anche noi possiamo ascoltare e che ci mette in dialogo con il cielo. In questa prospettiva di fede la vita non manca di voci che ci regalano futuro, forza, coraggio: la nascita di un figlio, il contatto con una persona buona, l’esperienza di un amore puro, l’abbraccio che perdona… sono tutte voci dal cielo, eco dell’unica Voce che sperimentiamo sulla terra. Grazie a queste voci il nostro cuore si risveglia, in noi comincia qualcosa di nuovo. Infine, anche noi potremo ascoltare con Gesù la voce di Dio che ci dice: «Tu sei per me un figlio amato, una figlia amata». Il segno del battesimo indica il percorso di Gesù: l’entrare nella morte, per riemergere risorti alla vita nuova. 

            Non raramente accade che il nostro battesimo si riduca a una bella cerimonia, che si fa come usanza nelle famiglie di tradizione cristiana, altrimenti la nonna non è contenta e in qualche modo ci si sentirebbe in colpa. Forse ancora oggi, per molti, funziona una certa logica costrittiva di appartenenza al gruppo, per non sentirsi diversi dagli altri. In realtà si tratta di una scelta che orienta la vita, che dispone a vivere secondo lo stile del vangelo. Siamo tutti a rischio di esserci in qualche modo abituati a dire che crediamo in Dio, senza che nella nostra vita non cambi nulla. Persino l’essere battezzati ci ha convinto di aver fede, dispensandoci dall’avviare un dialogo con il cielo, dall’ascoltare sinceramente la voce di Gesù, dal comprenderci come figli amati e non respinti per i nostri errori. Non raramente viviamo come fasci di nervi eccitati, mossi da un’agitazione esteriore e vuota, mai contenti del tutto. Accade che, pur essendo battezzati, non sappiamo in quale Dio crediamo. Nel cuore di molti cresce spontanea un’immagine confusa di Dio, che toglie la gioia di vivere. In altri si coltiva l’idea di un Dio patriarcale, contaminata dai desideri umani e dalle paure, dalle ansie e dalle delusioni. Non mancano anche le persone dominate dall’idea di un Dio onnipotente e capriccioso, sempre preoccupato del suo onore, sempre pronto a castigare, che cerca la sottomissione delle sue creature. Oggi il vangelo capovolge le nostre idee sbagliate e pericolose di Dio e ci dice che l’uomo non è chiamato a vivere per Dio, ma è Dio che esiste per l’essere umano. Non è l’uomo chiamato ad aprire il cielo, ma il cielo l’ha già aperto Cristo e da questo cielo non smette di parlarci a noi che viviamo sulla terra.

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Sergio Gaburro Sergio Gaburro

Epifania (Mt 2,1-12)

Epifania è il nome della festa di oggi, che significa manifestazione a tutti dell’amore di Dio. Nel vangelo di oggi Matteo parla del Messia che si manifesta alle persone rifiutate da Israele, come i pagani e gli stranieri. Il paradosso è che i magi, sono avvolti per primi dall’amore di Dio. L’episodio crea una sorta di imbarazzo per i primi cristiani, tanto da trasformarlo quasi in una fiaba folcloristica.

Epifania è il nome della festa di oggi, che significa manifestazione a tutti dell’amore di Dio. Nel vangelo di oggi Matteo parla del Messia che si manifesta alle persone rifiutate da Israele, come i pagani e gli stranieri. Il paradosso è che i magi, sono avvolti per primi dall’amore di Dio. L’episodio crea una sorta di imbarazzo per i primi cristiani, tanto da trasformarlo quasi in una fiaba folcloristica. Chi sono questi maghi (μάγοι/grandi)? Sono pagani, stranieri, sapienti, la cui attività di ingannatori è condannata dalla bibbia. Per questo nella tradizione sono diventati magi: figure quasi romantiche. Poi, sono stati trasformati in re, sulla base dei doni si è stabilito il numero e persino il nome, interprete di tre razze dell’umanità: Melchiorre re di Persia, Gaspare re dell’India e Baldassarre re d’Arabia. Si è speculato anche sui doni trovando un significato per l’oro, l’incenso, la mirra. Così sono diventati i “re magi”. Questi abbellimenti devozionali e fantasiosi, possono dare un tocco di poesia al racconto, ma rischiano di sviare dal messaggio. In realtà si tratta di uomini in ricerca, che scrutano le stelle, che si mettono in cammino. L’Oriente antico, infatti, vede nella luce delle stelle un riflesso della luce divina, una Sua chiamata. Questi uomini vengono da una terra lontana e rispetto al popolo eletto sono extracomunitari.

Subito emerge il contrasto: i vicini cercano di far fuori il neonato, mentre i lontani cercano di incontrarlo. L’evangelista Matteo, scrivendo il suo racconto almeno cinquant’anni dopo la morte e la risurrezione di Gesù, ha sotto gli occhi ciò che stava succedendo. Il potere (con Erode), i capi dei sacerdoti, gli scribi e tutta Gerusalemme tremano di paura e non vedono la stella, mentre i non credenti, gli esclusi, aprono il loro cuore a questa nascita. Le persone religiose, convinte di essere i veri credenti, quelli che avevano il nome di Dio sulla bocca tutti i giorni, sono coloro che non riconoscono il Bambino. Con ironia si sta dicendo che il Messia atteso era così vicino, a due passi, ma gli esperti di religione, intenti a pregare Dio in cielo, non si sono resi conto che era venuto sulla terra. Il rischio delle nostre comunità cristiane è di pensare di possedere Dio, di avere l’esclusiva della fede, della morale e della verità. Quando ci sentiamo i migliori ci illudiamo di essere l’altoparlante di Dio, che si permette di estromettere le persone non gradite, quelle che non ci assomigliano. Non basta essere cattolici praticanti e devoti da generazioni, non è sufficiente essere in regola con tutti i sacramenti, non conta se siamo membri del consiglio pastorale o di qualche movimento... l’importante è rimanere in cammino, ascoltare la Parola, scrutare la vita, consapevoli che Dio non èproprietà privata. Forse, pensando di possedere Dio, non sappiamo più attenderlo, non impariamo più da chi viene da lontano. Tutti siamo a rischio. Soltanto chi si costruisce un idolo può pensare di possedere Dio! Chi studia e insegna teologia rischia che non aspetta Dio, perché lo ha rinchiuso nelle sue formule, chi è uomo di chiesa non aspetta Dio, perché lo ha già imprigionato nella sua personale esperienza religiosa. Non è facile dire Dio ai bambini e ai lontani, agli indifferenti e agli atei, spiegando nello stesso tempo che noi stessi non possediamo Dio, ma anche noi lo aspettiamo: oggi meglio di ieri.

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Sergio Gaburro Sergio Gaburro

3 gennaio 2021 -2a di Natale (Gv 1,1-18)

Ritorna oggi l’annuncio del Natale. L’evangelista Giovanni, tuttavia, non racconta nulla della nascita di Gesù, ma sceglie di spiegare il senso di questa nascita, il significato di un Dio che si fa uomo. Che cosa vuol dire che quel Dio che abita i cieli, decide di venire sulla terra? Che cosa significa la decisione di Dio di coinvolgersi nella vicenda umana? Alla domanda: dove si trova Dio? L’evangelista risponde che non lo trovi in un luogo, in uno spazio, in una costruzione, in una cattedrale, in un santuario, ma lo trovi dentro l’uomo.

Ritorna oggi l’annuncio del Natale. L’evangelista Giovanni, tuttavia, non racconta nulla della nascita di Gesù, ma sceglie di spiegare il senso di questa nascita, il significato di un Dio che si fa uomo. Che cosa vuol dire che quel Dio che abita i cieli, decide di venire sulla terra? Che cosa significa la decisione di Dio di coinvolgersi nella vicenda umana? Alla domanda: dove si trova Dio? L’evangelista risponde che non lo trovi in un luogo, in uno spazio, in una costruzione, in una cattedrale, in un santuario, ma lo trovi dentro l’uomo. Giovanni afferma: «Il Verbo si è fatto carne». In altre parole Dio è entrato nella fragilità umana e quindi c’è un qualcosa in me che va oltre me stesso: Dio è nascosto in me. Non è materia, non è visibile. Tuttavia è una presenza silenziosa paragonabile alla luce che splende nelle tenebre. L’oscurità della storia ha tentato di spegnere questa luce, ma è stata vinta; il buio dei drammi umani si è illuso di poter vincere questa luce, ma ne è uscito sconfitto; la tenebra del peccato sembrava vittoriosa, ma ne è uscita perdente; la stessa morte pretendeva di essere l’ultima parola, ma l’ultima è stata la luce della risurrezione. La luce è ostinata nel voler vincere la tenebra. Dio è ostinato, insiste, non si dà per vinto. Non c’è nessun peccato che possa ritardare la sua misericordia, non c’è nessuna indifferenza che possa impedire il suo amore, non c’è nessuna fragilità che possa sospendere la sua forza. 

Anche il genitore autentico traduce sulla terra la forza di questa luce ostinata. Non c’è nessun sbaglio del figlio che impedisca alla madre di continuare a volergli bene, non c’è nessun torto che gli impedisca al padre di abbracciare il figlio ribelle. Chi ama non lo fa perché l’altro se lo merita, ma perché ne ha bisogno! Chi ama di fronte al buio della vita non si dà per vinto, ma inventa le strade per far arrivare la luce. A te che vivi oggi avvolto dal buio della sofferenza, il vangelo ti dice: le tenebre del dolore non vincono. A te che vivi queste feste nella solitudine, il vangelo ti ripete: il buio del distacco è perdente. A te che vivi la stagione della pandemia, il vangelo ribadisce: la notte del virus è il tempo prima dell’alba. Forse proprio questo Covid-19, rubandoci tutto il miele con cui abbiamo ricoperto il Natale, ci ha permesso o costretto a riscoprire il vero Natale come l’incontro tra Dio e l’uomo, tra viventi, tra persone. Gesù non ha scelto una carne privilegiata per nascere, ma è venuto ad abitare la carne umana, la nostra storia: per quanto fragile e complicata essa sia. Egli è dentro le nostre ferite, le nostre solitudini, le nostre contraddizioni, dentro le nostre soddisfazioni, le nostre gioie, le nostre speranze. La fragilità della nostra carne è impregnata della Sua presenza. Sperimentare il limite della carne, toccare con mano la fragilità della carne, conoscere quanto è debole la nostra carne, è l’esperienza che ci rende umani. Quando una persona riconosce di essere di carne, infatti, avverte di aver bisogno dell’altro e in questo modo fa esperienza di Colui che si è fatto carne. Nonnonostante la fragilità della carne, ma proprio dentro questa fragilità!

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1 gennaio 2021 - Maria madre di Dio (Lc 2,16-21)

All’inizio di questo nuovo anno la liturgia ci dice che Dio ha una madre: Maria. Una semplice e umile donna del villaggio di Nazareth. Il cristianesimo afferma che Dio ha una “madre” come l’abbiamo tutti noi esseri umani. Quando una madre partorisce un figlio, dà alla luce una novità, qualcosa di nuovo che cambia la vita, che fa rinascere. Gesù che nasce non solo porta una buona notizia, ma è lui stesso la buona e nuova notizia. Tale novità da far conoscere è affidata a dei pastori, che la religione considerava i più lontani da Dio, perché vivevano in uno stato di continua impurità: lontani dalle leggi, esercitati a furti ed espedienti. L’arrivo del Messia avrebbe dovuto togliere di mezzo questi peccatori e invece, ironia tipicamente divina, sono i primi ad essere avvolti dalla luce del Signore.

All’inizio di questo nuovo anno la liturgia ci dice che Dio ha una madre: Maria. Una semplice e umile donna del villaggio di Nazareth. Il cristianesimo afferma che Dio ha una “madre” come l’abbiamo tutti noi esseri umani. Quando una madre partorisce un figlio, dà alla luce una novità, qualcosa di nuovo che cambia la vita, che fa rinascere. Gesù che nasce non solo porta una buona notizia, ma è lui stesso la buona e nuova notizia. Tale novità da far conoscere è affidata a dei pastori, che la religione considerava i più lontani da Dio, perché vivevano in uno stato di continua impurità: lontani dalle leggi, esercitati a furti ed espedienti. L’arrivo del Messia avrebbe dovuto togliere di mezzo questi peccatori e invece, ironia tipicamente divina, sono i primi ad essere avvolti dalla luce del Signore. L’amore del Bambino Gesù è un dono regalato a tutti e non premio per i buoni. Nessuno rimane escluso dall’amore di Dio! Chi ascoltava i pastori raccontare questa nascita restava stupito, così come rimane sconcertata Maria di fronte alla novità che ha partorito. È bello notare che la madre custodisce dentro di sé i fatti successi, per interpretarli e cercarne il senso. Anche per lei non tutto è chiaro e lascia che la novità si decanti nel cuore. Nel primo giorno dell’anno Maria ci ricorda che la presenza di Dio non è immediata, ma mediata. Per essere trovato Dio ci chiede di guardare dentro i fatti che viviamo, di osservarli con calma, di non accontentarci di ciò che è superficiale, perché il senso dei fatti rimane invisibile.

L’anno che iniziamo è nuovo, ma la vita pur essendo la stessa, possiamo guardarla con occhi nuovi. L’anno appena trascorso è stato segnato dal virus del Covid-19, compromettendo la salute,l’istruzione, l’economia; provocando non pochi e pesanti sofferenze e disagi. Le relazioni sono state messe alla prova, l’isolamento ha aumentato l’individualismo. C’è chi ha perso una persona cara, chi ha perso il lavoro, chi ha perso la fiducia nella vita e se l’è tolta. La nostra riconoscenza va a tutte quelle persone che sono morte, stando accanto ai malati per alleviarne le sofferenze o salvarne la vita. Fa male, tuttavia, constatare che accanto a stupende generosità, trovino impulso diverse forme di nazionalismo e di razzismo, che seminano morte e distruzione. Dispiace vedere che in tempi di pandemia non mancano puntuali gli sciacalli che fanno campagna elettorale, sciacalli che mettono in atto truffe e raggiri, che si divertono a spacciare vaccini taroccati ai primi analfabeti. I fatti che ci mettono alla prova ci dicono quanto le persone sono tra di loro collegate, quanto è importante si sentano responsabili gli uni degli altri, per costruire – come dice papa Francesco – una «cultura della cura come percorso di pace». Come Maria, in questo nuovo anno, siamo chiamati a custodire dentro di noi i fatti sempre da capire, a meditare la nostra storia e a riconoscere la presenza di Dio nelle situazioni che viviamo. Malgrado tutto, nessunviruspuò soffocare la buona notizia che Dio è con noi. Il suo Spirito lavora in incognito nella nostra vita, regalandoci, spesso a nostra insaputa, ciò di cui avevamo bisogno. Dio si è chinato su di noi e condivide la nostra storia: egli sorride con noi, piange con noi, fa festa con noi, soffre con noi. È dentro la nostra storia, non siamo soli.

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Sergio Gaburro Sergio Gaburro

Famiglia di Nazareth (Lc 2,22-40)

Gesù è nato. In questo periodo ci trova con lo sguardo silenzioso, in fatica a parlare, titubanti nel salutare. Egli ci osserva indifesi e vulnerabili, in riserva con la nostra pazienza e nella speranza che questo cammino incerto sia breve. Oggi nella liturgia, anche noi ci uniamo a un piccolo gruppo che al tempio di Gerusalemme passa come inosservato: una famiglia di profughi molto giovane e due anziani. Maria tiene in braccio il bambino, Giuseppe porta l’offerta dei poveri: due giovani colombe. Insieme vanno per il rito di purificazione della madre e presentare al Signore il dono più prezioso: un bambino.

Gesù è nato. In questo periodo ci trova con lo sguardo silenzioso, in fatica a parlare, titubanti nel salutare. Egli ci osserva indifesi e vulnerabili, in riserva con la nostra pazienza e nella speranza che questo cammino incerto sia breve. Oggi nella liturgia, anche noi ci uniamo a un piccolo gruppo che al tempio di Gerusalemme passa come inosservato: una famiglia di profughi molto giovane e due anziani. Maria tiene in braccio il bambino, Giuseppe porta l’offerta dei poveri: due giovani colombe. Insieme vanno per il rito di purificazione della madre e presentare al Signore il dono più prezioso: un bambino. Lo portano al tempio secondo la tradizione, per dire che quel figlio non è loro, ma appartiene a Dio che dona la fecondità. Sulla soglia trovano due anziani in attesa che non smettono di sperare: Simeone e Anna. Non sono due sacerdoti, ma due laici che sanno vedere oltre e riconoscono in quel bimbo appena nato il Messia. Essi percepiscono la presenza di Dio: vedono nel bambino Colui che è capace di far cadere le maschere indossate dall’uomo, vedono Colui che contraddice tutto ciò che non è amore, vedono in Lui la possibilità di ricominciare sempre dopo ogni caduta.

Ai nostri giorni non è facile descrivere la fisionomia della famiglia, tante sono le mutazioni che ha subito. Da un modello di famiglia patriarcale fatto di comandi, di regole e punizioni, si è passati a un modello che imposta i rapporti sul dialogo: dal “devi obbedire!”, al “devi capire”. Lo spaccato familiare di oggi è quanto mai variegato: ci sono coppie senza figli, famiglie con un solo figlio o con un solo genitore, famiglie di genitori diversi che vivono insieme, di persone separate o vedove che vivono da sole, di figli che vivono con i nonni o con coppie diverse di genitori, di giorno o durante i fine settimana. Oggi si pensa che a decidere la nascita e lo sviluppo di una famiglia sia il legame affettivo con un’altra persona e non per forza la celebrazione di un matrimonio. La realtà della famiglia segnala l’importanza di fondere insieme due esigenze contrastanti dell’essere umano: il bisogno di appartenenza e la libertà individuale. Un equilibrio non sempre facile da mantenere, perché ogni appartenenza e ogni libertà hanno un prezzo da pagare. Molte famiglie di oggi, infatti, sono ferite perché segnate dalla separazione, dal divorzio, provate dal fenomeno dell’abuso e della violenza. Ma ci sono anche famiglie coraggiose che condividono l’impegno dell’affido e il rischio dell’adozione, non come la ruota di scorta dell’infertilità, ma come scelta per onorare i diritti della persona. Della famiglia di Nazareth non sappiamo molto: non ci viene detto come scorrevano le giornate, quali scelte venivano fatte, quale aria si respirava. Forse si vuole raccontare il silenzio della quotidianità e della normalità, quale spazio di incontro con Dio. È il silenzio di chi, in ogni famiglia, vive tra slanci e scoraggiamenti, tra lavoro e riposo, tra soddisfazioni e delusioni. Ciò che caratterizza la famiglia di Nazareth non sono le cose religiose che compie, ma il fare in silenzio le cose ordinarie ponendo al centro il bambino Gesù. Allo stesso modo i nostri gesti e i nostri comportamenti potranno parlare di Lui senza dire una parola.

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Sergio Gaburro Sergio Gaburro

Natale - 25 dicembre 2020 (Lc 2,1-14)

Oggi è Natale, la festa della nascita di Gesù. Un  Dio che si muove, che scende, che si abbassa e viene a cercare l’uomo. La sua nascita avviene di notte, mentre tutti dormono, in silenzio, senza nessun effetto speciale. Solo i pastori vegliano il loro gregge e quando l’angelo si rivolge a loro, li trova svegli e attenti. Non chiedono spiegazioni alla notte, ma camminano. Non aspettano l’alba per muoversi, ma le uniche parole a far luce sui loro passi sono quelle dell’angelo.Anche noi come i pastori del vangelo ci siamo riuniti nella notte delle nostre preoccupazioni, nell’oscurità delle nostre incertezze, nel buio dei nostri giorni. Dentro la nottata della pandemia un angelo ci parla e ci invita a camminare nel buio, come se la notte non fosse più notte e ci dice: «Non temete, vi annuncio una grande gioia che sarà di tutto il popolo: oggi è nato per voi un salvatore».

Oggi è Natale, la festa della nascita di Gesù. Un  Dio che si muove, che scende, che si abbassa e viene a cercare l’uomo. La sua nascita avviene di notte, mentre tutti dormono, in silenzio, senza nessun effetto speciale. Solo i pastori vegliano il loro gregge e quando l’angelo si rivolge a loro, li trova svegli e attenti. Non chiedono spiegazioni alla notte, ma camminano. Non aspettano l’alba per muoversi, ma le uniche parole a far luce sui loro passi sono quelle dell’angelo.Anche noi come i pastori del vangelo ci siamo riuniti nella notte delle nostre preoccupazioni, nell’oscurità delle nostre incertezze, nel buio dei nostri giorni. Dentro la nottata della pandemia un angelo ci parla e ci invita a camminare nel buio, come se la notte non fosse più notte e ci dice: «Non temete, vi annuncio una grande gioia che sarà di tutto il popolo: oggi è nato per voi un salvatore». Per troppo tempo la gioia era stata proprietà di pochi. Ora, con questa nascita, la gioia è di tutti: nessuno può sequestrare il Bambino! Nessuno può dire: Gesù è mio, non è tuo! Neppure i cristiani cattolici possono dirlo. Questa nascita è il capovolgimento della ruota della storia, che aveva girato in un unico senso: dal basso verso l’alto, dal fragile verso il forte, dal povero verso il ricco. 

Con il Natale questa logica si inceppa, perché la grandezza divina si fa piccolezza umana, l’Onnipotente si fa bambino, gli ultimi si fanno primi. Tutti, nella vita, vogliono diventare potenti, tutti cercano una poltrona più alta, tutti pretendono di essere dio degli altri. Il Natale, invece, ci sta dicendo che per capire la realtà della vita è necessario abbassarsi, come quando ci abbassiamo per baciare un bambino e troviamo la gioia. Diversamente, chi è arrogante, prepotente e superbo, non può capire la vita, perché non essendo capace di abbassarsi non trova la gioia. Il Dio cristiano, abbassandosi ci sta dicendo: impara a scendere le tue scale, non guardare gli altri dall’alto in basso, ricordati di appartenere alla razza umana. Dal Natale in poi nessuno può accusare Dio di essere rimasto nei cieli, perché ha deciso di abbassarsi abitando la terra per dire a tutti noi: abbassatevi, inchinatevi, piegate ogni forma di presunzione. Il Bambino che è nato vuole la nostra nascita e ci dice: io sono dentro la vita e quando ti prendi cura di ogni vita, in particolare di quella ferita, mi stai incontrando: chi onora la vita, onora Dio! Gesù ci dice oggi: dove si ascolta un respiro, dove batte un cuore, dove le persone camminano nella notte dei loro giorni, io mi faccio trovare con la mia Parola per mantenere accesa la luce della speranza. Sarà una piccola luce, ma nessuna tenebra del mondo sarà così potente da poter spegnerla.

 

Buon Natale a chi vive queste feste nella solitudine,

perché il Covid gli ha portato via la persona amata.

Buon Natale a chi finalmente, dopo anni di attesa, 

stringe tra le braccia un figlio tanto desiderato e amato.

Buon Natale a chi si dimentica che Gesù è nato in una stalla,

perché chi finisce così in basso si senta abbracciato da Lui.

Buon Natale a chi cerca di fare un passo verso Dio

e non vede che Egli ne ha già fatti cento verso di lui.

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Sergio Gaburro Sergio Gaburro

Natale 2020 – Vigilia (Mt 1,1-25)

Nel Natale celebriamo la nascita di Gesù, pienamente inserito nella storia umana dei suoi antenati. Nel Vangelo spunta una folla di personaggi, alcuni molto noti, altri quasi sconosciuti. Sono gli antenati di Gesù. L’evangelista Matteo si inserisce in una tradizione, che forse affonda le sue radici in un contesto di nomadi e di beduini. La Bibbia non dice il semplice albero genealogico, ma indica una storia che continua.

Nel Natale celebriamo la nascita di Gesù, pienamente inserito nella storia umana dei suoi antenati. Nel Vangelo spunta una folla di personaggi, alcuni molto noti, altri quasi sconosciuti. Sono gli antenati di Gesù. L’evangelista Matteo si inserisce in una tradizione, che forse affonda le sue radici in un contesto di nomadi e di beduini. La Bibbia non dice il semplice albero genealogico, ma indica una storia che continua.

1. Gesù nasce per tutti, giusti e peccatori. La storia degli antenati di Gesù è fatta di santi e di peccatori, di comportamenti onesti e scandalosi. Raccontando le origini di Gesù la Bibbia supera la distinzione tra cittadini e stranieri, tra giusti e peccatori, una distinzione che ancora oggi funziona nelle nostre società per separare, per catalogare, per emarginare. Molti attendevano la nascita di un Messia tra quelli che si consideravano buoni, praticanti, giusti, un Messia che finalmente potesse separare il grano dalla paglia. Gesù sembra fare il contrario: non si separa dai peccatori ma va con loro, non li abbandona, ma li perdona. È la strana politica della pazienza tipica del Dio cristiano! È una nascita universale, non semplicemente nel senso geografico, ma qualitativo, perché inizia dagli ultimi, non per trascurare i primi, ma per imparare a vedere il mondo dalla parte giusta, come lo vede Dio. A noi non è chiesto di girare tutto il mondo, ma di far crollare tutti gli steccati che incontriamo nel nostro piccolo mondo.

2. Gesù, figlio di Davide, viene da Dio. A un certo punto nella genealogia c’è una rottura quando si dice: «da Maria fu generato Gesù, detto il Cristo». Non si dice più cheil tale generò il tale, ma che «fu generato». Chi è il generatore? La linea del sangue è ridimensionata, perché Gesù non è solo (e tanto) figlio di Davide, ma viene da Dio. Questo è il mistero di Gesù, la sorpresa e per molti lo scandalo. Gesù è inserito nella storia ebraica, ma la supera: non si separa dalla storia umana, ma vi entra pienamente. Ecco il paradosso: gli uomini si illudono di affermare la propria originalità separandosi, mentre Gesù esprime la sua novità e la sua divinità facendosi vicino. Ci illudiamo di poter dire la nostra originalità per il vestito che indossiamo, per le proprietà che abbiamo, per il trucco che usiamo, per i regali che facciamo. È grande l’illusione che il bello fisico e l’apparire siano le armi vincenti per dire chi siamo. Gesù ci dice con i fatti che la nostra originalità si mostra nell’entrare pienamente nella storia umana, nel farci vicini a chi ha bisogno, nel tendere la mano a chi rifiuta la pace, nell’offrire un saluto a chi ce l’ha tolto… In questo difficile clima di incertezza, segnato da un forzato distanziamento, Gesù supera la distanza tra cielo e terra e si fa uomo per condividere la nostra incertezza di oggi, la nostra ansia per il futuro. Lui che si fa Bambino ci insegni a farci vicini alle persone nei modi e nelle forme consentite. È il farci presenti con una telefonata, un ricordo, una parola di coraggio. Dal Natale in poi là dove c’è vicinanza umana è presente la vicinanza di Dio. È questo il modo più vero non per dire Buon Natale, ma fare un buon Natale!

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Sergio Gaburro Sergio Gaburro

Avvento 4 – B (Lc 1,26-38)

Nella chiamata di Maria a diventare madre di Gesù, ancora una volta lo stile di Dio ci sorprende, ci lascia senza parole. Per farsi uomo Dio non sceglie una capitale importante, una regione famosa e conosciuta per la sua religiosità e per la sua devozione, ma sceglie Nazareth. Un villaggio di poche case, mai nominato nelle Scritture, in una delle regioni che i benpensanti del tempo consideravano di serie “B”. Non è solo Nazareth a essere malfamata, ma tutta la regione della Galilea. Nel nostro modo di vedere, Dio non poteva trovare un posto peggiore per scegliere la madre del Salvatore!

Nella chiamata di Maria a diventare madre di Gesù, ancora una volta lo stile di Dio ci sorprende, ci lascia senza parole. Per farsi uomo Dio non sceglie una capitale importante, una regione famosa e conosciuta per la sua religiosità e per la sua devozione, ma sceglie Nazareth. Un villaggio di poche case, mai nominato nelle Scritture, in una delle regioni che i benpensanti del tempo consideravano di serie “B”. Non è solo Nazareth a essere malfamata, ma tutta la regione della Galilea. Nel nostro modo di vedere, Dio non poteva trovare un posto peggiore per scegliere la madre del Salvatore! Non solo, ma come gli è venuto in mente, tra le molte possibilità che aveva a disposizione per realizzare il suo progetto, di rivolgersi proprio a una donna e non a un profeta, a una ragazza e non a un sacerdote del tempio? Ma questo ancora non gli basta. Per questa nascita Dio si rivolge a una giovane che si chiama Maria. Un nome da evitare perché ricorda la sorella di Mosè, una figura ambiziosa capace di raggirare il fratello e che Dio ha maledetto con la lebbra. Da quella volta il nome Maria non compare più nella Bibbia, perché evocava la maledizione di Dio. Annunciando la nascita l’angelo saluta Maria come «piena di grazia» e non come «piena di meriti». E a sorpresa gli dice: «Lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù». Ancora una volta Dio stupisce, perché affidando alla donna il potere di dare il nome al bambino che nasce, rompe la tradizione con il passato, che riservava questo compito solo al padre.

Come al tempo di Gesù anche oggi Dio ci sorprende nel voler venire al mondo nella Galilea. Egli non nasce nella città santa del tempio, del trono e del potere, ma al contrario in un luogo di peccato, in una terra di pagani, in una regione scandalosa. Gesù nasce nei luoghi sconosciuti, nei borghi più malfamati, nei cuori più emarginati, dove non c’è nessun svolazzo di angeli, nessun addobbo natalizio, nessuna cornice di luci. Oggi potremmo dire che Egli nasce nelle terapie intensive degli ospedali, nelle famiglie prostrate per la malattia di un proprio caro, nelle case di riposo in cui si muore e si pensa: chi sarà il prossimo? La Galilea di oggi sono le periferie del mondo, dove c’è miseria materiale e morale, dove manca il rispetto per la dignità della persona, dove i bambini la sera non prendono sonno perché hanno fame, dove i grandi a pancia piena non si addormentano per paura dei ladri. Colui che nasce nella regione malfamata della Galilea ci invita a cercarlo nel villaggio degli indifferenti, nel borgo dei cercatori di senso, fra le persone emarginate dentro la chiesa. La sua scelta è un appello per noi ad allargare i nostri confini, perché Lui è già uscito dalla porta che avevamo chiuso per paura degli altri che abbiamo considerato di serie “B”. Egli ha già attraversato il muro che avevamo eretto attorno a noi per difenderci da chi è diverso e non la pensa come noi. Egli ha già superato la barriera che avevamo posto tra noi e i parenti che da anni non salutiamo. Il vangelo ci sta dicendo che Gesù si lascia incontrare quando tocchiamo le ferite degli altri, quando smettiamo di sentirci migliori degli altri, quando camminiamo insieme a chi è caduto, consapevoli che tutti noi abbiamo imparato a camminare cadendo nella nostra Galilea di oggi.

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Marco Morandini Marco Morandini

3 Avvento – B (Gv 1,6-8.19-28)

In questa domenica anche l’evangelista Giovanni ci parla del Battista, non come il personaggio che domanda la confessione dei peccati, ma come il testimone della Luce. Il contesto evidenzia la contrapposizione fra le autorità religiose e l’uomo inviato per testimoniare l’avvento di un cambiamento. L’arrivo del Messia, tuttavia, rende inquieto il potere religioso, perché teme di perdere i propri privilegi, di veder scoperti i loro altarini.

In questa domenica anche l’evangelista Giovanni ci parla del Battista, non come il personaggio che domanda la confessione dei peccati, ma come il testimone della Luce. Il contesto evidenzia la contrapposizione fra le autorità religiose e l’uomo inviato per testimoniare l’avvento di un cambiamento. L’arrivo del Messia, tuttavia, rende inquieto il potere religioso, perché teme di perdere i propri privilegi, di veder scoperti i loro altarini. Per questo alcuni sacerdoti, incaricati del culto, e alcuni levìti, incaricati di sorvegliare il Tempio, sono inviati a interrogare Giovanni. Il clima sembra quello di un processo. Interrogato per tre volte: Tu chi sei? Giovanni per tre volte risponde: non sono il Cristo, non sono Elia, non sono il profeta che credete. Egli non fa l’elenco delle sue qualifiche, come avremmo fatto noi: sono un profeta laureato, un ambasciatore di Dio, ho il diploma di annunciatore, sono un monsignore della santa chiesa di Dio. Nemmeno noi sappiamo fino fondo chi siamo: lasciamo a Dio di svelare chi siamo veramente. Giovanni dice soltanto: Io sono una semplice voce, un Altro è la parola! Giovanni non accetta nessun titolo e in questo modo può essere il testimone di Gesù.

L’evangelista ci dice che «Giovanni non è la luce, ma deve dare testimonianza alla luce». In questo caso la luce non è una cosa, ma una persona, una presenza invisibile e silenziosa. Innanzitutto si sta dicendo che nel nostro mondo non ci sono solo le tenebre, ma c’è anche la luce. Senza la luce, anche se c’è tutto, è come se non ci fosse nulla. Il buio creato dalla stagione del Covid-19 ha una forza impressionante, ma la luce della fiducia ha il potere immenso di continuare a far vivere. Non per nulla quando nasce un bambino si dice: “è venuto alla luce”, ha cominciato ad esistere. La luce è condizione di vita: una pianta senza luce muore. Inoltre la luce non si vede, ma fa vedere. Il paradosso è che noi vediamo il sole, ma non la luce che ce lo fa vedere. La luce è l’invisibile che fa vedere. Dio è invisibile, nessuno l’ha mai visto, ma ci fa vedere. Egli ci mostra non solo quello che vedono gli occhi, ma anche quello che gli occhi non vedono. Noi vediamo le persone che ci vogliono bene, ma nessuno con i propri occhi ha mai visto l’amicizia, l’affetto, l’amore. Infine la luce non fa rumore. Tutto ciò che vive fa rumore, come l’acqua, il vento, il fuoco, ma la luce non fa nessun rumore: è misteriosamente silenziosa. Così è Dio: anche lui non fa rumore, ma fa percepire la sua presenza e noi siamo testimoni che tutte le fitte tenebre del mondo di oggi non possono spegnere il piccolo lume acceso della speranza. Giovanni è testimone della luce, non dell’ombra; della trasparenza, non della falsità; dell’autenticità, non della doppiezza, dell’amore, non dell’inganno. Egli ci dice che essere testimoni significa avere il coraggio di dire che non siamo noi il Cristo, che non possiamo giocare a fare Dio con la vita delle persone, dicendo: ci penso io, ho la soluzione, ti rendo felice. Dichiararci non superiori agli altri, significa riconoscere i nostri limiti, le nostre debolezze, la nostra umanità fragile e affermare che il Superiore è uno solo: Cristo. Noi possiamo essere voce, suggerimento, consiglio, avvertimento, richiamo, possiamo essere mano tesa, ma non Cristo.

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Marco Morandini Marco Morandini

Immacolata (Lc 1,26-30)

La solennità dell’Immacolata non evoca la concezione verginale di Gesù, ma la figura di Maria preservata fin dal primo istante della sua vita da ogni resistenza nei confronti di Dio, da ogni macchia di peccato. Mentre siamo in attesa verso il Natale vogliamo condividere con Maria la sua attesa di madre. Innanzitutto questa adolescente palestinese, di circa quindici anni, incontra un messaggero di Dio, un angelo, a indicare che Dio parla agli umani, servendosi di suoi annunciatori.

La solennità dell’Immacolata non evoca la concezione verginale di Gesù, ma la figura di Maria preservata fin dal primo istante della sua vita da ogni resistenza nei confronti di Dio, da ogni macchia di peccato. Mentre siamo in attesa verso il Natale vogliamo condividere con Maria la sua attesa di madre. Innanzitutto questa adolescente palestinese, di circa quindici anni, incontra un messaggero di Dio, un angelo, a indicare che Dio parla agli umani, servendosi di suoi annunciatori. La Parola che raggiunge la creatura, attraverso un messaggero, cambia la vita: la orienta in una nuova direzione. Le parole del saluto dell’angelo «il Signore è con te», dicono che l’iniziativa è tutta nelle mani di Dio. Egli l’ha scelta non per le sue particolari qualità, ma l’ha resa adatta perché è stata colmata di grazia. Non siamo noi, infatti che arriviamo a Dio, ma è lui che viene verso di noi. Maria reagisce con timore: l’atteggiamento tipico di chi incontra Dio. Non è la paura di chi vuole controllare l’intenzione di Dio, ma è l’atteggiamento di prudenza di chi è disposto a collaborare. L’angelo, poi, la rassicura: «Non temere Maria». Non lasciarti dominare dal panico. È la nostra esperienza, quando la vita ci domanda di fare qualcosa di cui non ci sentiamo all’altezza, qualcosa che ci fa sentire piccoli, incapaci, impotenti. La grandezza di Maria è nel saper rispondere: «Ecco la serva del Signore». Lei non scappa lontano nell’ingenua illusione di sfuggire a Dio, come fecero Elia e Giona; non discute con Dio come fece Mosè; non ride incredula alla promessa di Dio come fece Sara, ma si abbandona con fiducia alla volontà del suo Dio e a lui innalza la lode.

Incamminati verso il Natale vorremmo condividere con Maria l’attesa di quel figlio. Lei come madre e discepola, noi come fratelli e discepoli di quel Figlio. Ogni donna che ha provato dentro se stessa il miracolo del dono della vita, sa quanto sia particolare e prezioso il tempo vissuto con il pancione. Lei sa che grazie al proprio sangue, alle proprie ossa e a tutto se stessa, si sta formando in seno quella che sarà una nuova persona. Quanta trepidazione perché quel piccolo nasca sano, quanta cura perché sia difeso, quanta dolcezza segreta nei pensieri della mamma, quanta tenerezza se con una carezza, il piccolo germoglio che improvvisamente calcia, ritorna quieto al suo posto. Tutto questo anche Maria l’avrà provato, insieme a momenti di preoccupazione per ciò che la attendeva dopo la nascita. Quel bimbo veramente umano è il Figlio di Dio: emetterà un gemito, cercherà il seno della mamma, domanderà le sue coccole. In questo evento così semplice e misterioso è racchiusa tutta la grandezza infinita di Dio. Maria è chiamata immacolata, la madre senza ombra, perché si è abbandonata con fiducia al Dio della vita. Come Dio ha appoggiato la salvezza del mondo sulle spalle di una fragile fanciulla, senza che lei rifiuti o abbia paura di essere accusata dal fidanzato di adulterio, così anche noi siamo fiduciosi che Dio possa portare a compimento i suoi progetti scommettendo sulle nostre fragili persone.

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Marco Morandini Marco Morandini

2 Avvento – B (Mc 1,1-8)

In un periodo come questo, in cui non mancano notizie sconfortanti e tristi, ansie e paure per il futuro, il vangelo ci suggerisce di riprendere a vivere partendo da una buona notizia. L’evangelista apre il suo racconto con le parole «Inizio del vangelo di Gesù». Vangelo significa buona notizia. L’inizio di questa buona notizia è una persona: Gesù. È Lui che ogni giorno, attraverso le persone, ci dà buone notizie per riprendere a vivere.

In un periodo come questo, in cui non mancano notizie sconfortanti e tristi, ansie e paure per il futuro, il vangelo ci suggerisce di riprendere a vivere partendo da una buona notizia. L’evangelista apre il suo racconto con le parole «Inizio del vangelo di Gesù». Vangelo significa buona notizia. L’inizio di questa buona notizia è una persona: Gesù. È Lui che ogni giorno, attraverso le persone, ci dà buone notizie per riprendere a vivere. Se una parola ti ferisce, buona notizia diventa la pace; se una persona ti ha deluso, buona notizia è dargli ancora fiducia; se il rancore ti abita il cuore, buona notizia è il perdono. Alcune persone sono davvero delle buone notizie, sono vangelo vivente che fanno ripartire la vita. La Buona Notizia, che è Gesù, non è iniziata nel Tempio, non è venuta dal pulpito, ma dal deserto, non dai funzionari religiosi ufficiali, ma da un profeta del deserto. Il Vangelo non inizia in un ambiente religioso, ma laico. Giovanni Battista è voce che dal deserto grida l’urgenza di «preparare la via al Signore, di raddrizzare i suoi sentieri» per ottenere, attraverso il battesimo, il perdono dei peccati. Nello stesso tempo il Battista anticipa che, dopo di lui, viene uno più forte che battezzerà in Spirito Santo. Al centro della predicazione del Battista c’è il peccato e la confessione dei peccati, mentre al centro dell’interesse di Gesù c’è la vita, la gioia della gente, la speranza del povero, la salute dell’ammalato, la libertà del prigioniero... Per il Battista centrale è il peccato, per Gesù centrale è la lotta contro la sofferenza della gente. Peccato, infatti, è causare sofferenza a qualcuno! La parola profetica di Isaia e del Battista sono un invito a fare ordine nella nostra vita. Non ci è chiesto di essere eroi o di fare cose grandi, ma di essere consapevoli che anche a noi è dato di raddrizzare quei sentieri che ci portano fuori strada, di riempire quei burroni che ci fanno cadere in basso, di abbassare quei monti che ci impediscono di vedere il volto dell’altro. Come è possibile riprendere a vivere in modo nuovo? Ce lo suggerisce la parola e il vissuto di Gesù, di Colui che è più forte del Battista. La sua non è la forza del faraone, non è la forza dell’arrogante, ma la fragile forza dell’amore che rende robusta la vita. Ogni giorno noi proviamo a volerci bene, a raddrizzare i sentieri delle nostre infedeltà, a riempire il burrone del Covid-19 che ci tiene lontani, a riempire i vuoti di senso e di speranza, ad abbassare i monti dell’ansia che ci rendono inquieti. L’impegno è nostro, ma la forza è la Sua. Questa è la nostra speranza!

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Marco Morandini Marco Morandini

1 Avvento – B (Mc 13,33-37)

La prima domenica del tempo liturgico dell’Avvento apre con due imperativi di Gesù rivolti ai suoi discepoli: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento». Non raramente si sono usate queste parole per far pensare alla fine del mondo, alla paura della morte. In realtà il vangelo non vuole introdurci nell’angoscia della morte, ma invitarci a far tesoro della vita. Il tempo dell’Avvento è il tempo dell’attesa.

La prima domenica del tempo liturgico dell’Avvento apre con due imperativi di Gesù rivolti ai suoi discepoli: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento». Non raramente si sono usate queste parole per far pensare alla fine del mondo, alla paura della morte. In realtà il vangelo non vuole introdurci nell’angoscia della morte, ma invitarci a far tesoro della vita. Il tempo dell’Avvento è il tempo dell’attesa. Tutta la vita è un’attesa: la donna aspetta di partorire, il carcerato di essere liberato, il giovane di crescere, il malato di guarire… In spagnolo attendere si dice “esperar”, perché in fondo aspettare è anche sperare. Quando manca la speranza, il futuro diventa buio, si va cerca della sicurezza e di godere al massimo il proprio piccolo benessere. È questo il rischio che viviamo nella stagione del Covid-19: ancora sospesi, in ansia per il futuro, costretti a rinunce piacevoli. Il rischio è di prendere sonno e di ritirarci nel santuario della nostra vita privata, smettendo di attendere con fiducia Colui che è vicino e che di vita umana se ne intende. L’esperienza ci dice che non è importante quanto si aspetta, ma chi si aspetta! Non è l’attesa ansiosa per un treno che non arriva, per una persona cara la cui vita è in pericolo, ma è l’attesa della sentinella, la quale sa con certezza che dopo il buio della notte, per quanto lunga, arriverà la luce del giorno.

Il primo imperativo di Gesù «fate attenzione» ci richiama a uno sguardo attento sulla storia che viviamo, sul mondo, sugli altri, su noi stessi. Non basta guardare per accorgerci della presenza del padrone che ritorna, ma è necessario uno sguardo attento che sa interpretare bene dietro l’evidenza. Anche un ubriaco sa guardare, ma il suo sguardo è annebbiato, confuso. Perfino il nostro sguardo rischia di essere annebbiato dalla fretta, dal ritmo frenetico, al punto di non accorgerci di chi ci sfiora, di chi ci saluta, di chi abita la stessa casa. Vivendo distratti si rischia di non rendersi conto dei naufraghi di Lampedusa, di questo pianeta depredato, dell’affanno con cui si cerca di aumentare il benessere che spesso frustrazione e malessere. «Vegliate» è il secondo imperativo di Gesù con il quale invita a non lasciarsi schiacciare dal sonno, perché sono molti quelli che hanno smesso di vegliare sulla loro vita! Quanti fallimenti, bancarotte e ferite si sarebbero potute evitare vivendo con più vigilanza! Il vangelo ci domanda di vivere vigilanti, attenti alle persone, alle loro parole, ai loro silenzi, alle loro domande mute, a ciò che accade nel loro cuore. Un esercizio mai finito in cui tutti ci sentiamo sempre alle prime armi. Chi veglia sulle persone, infatti, non dorme, ma sta attendendo la venuta e il ritorno del Signore.

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